Paternità adottiva.

Anche delle bambine musulmane?

Spesso, nei nostri gruppi di autocoscienza maschile, ci confrontiamo sulla paternità. Abbiamo cominciato raccontandoci dei nostri padri e dei nostri tentativi di essere padri “non come loro”, assenti, maneschi, violenti, autoritari… Nessuno ci insegnava; avevamo solo modelli che rischiavamo di ripetere inconsapevolmente. O sbagliavamo tutto, volendo buttare il bambino “paternità” con l’acqua sporca dei modelli che non volevamo incarnare più, magari proponendoci di essere “amici”, invece che padri, dei nostri figli e delle nostre figlie.
Grazie alle nostre compagne, a letture, a confronti con insegnanti, alla riflessione sugli errori commessi… e soprattutto all’amore, tenero e tenace, per figli e figlie, abbiamo potuto raccontarci storie a lieto fine.
Qualcuno, a quel punto, ha introdotto la “paternità adottiva”: non solo siamo padri adottivi di figli e figlie delle nostre compagne, che loro generano e poi ci presentano, invitandoci ad amarli/e come figli e figlie anche nostri/e; ma siamo invitati a sentirci responsabili padri adottivi verso tutti i bambini e tutte le bambine che vengono al mondo, a cominciare da quelli e quelle con cui entriamo in relazione.
Questa nostra responsabilità, consapevole e vissuta con coerenza, può contribuire a generare un mondo nuovo. Basta pensarci un attimo per convincercene: per i nostri e le nostre vogliamo solo il bene… se lo volessimo davvero per tutti e tutte?

Su La Stampa del 9 aprile scorso Grazia Longo e Karima Moual hanno raccontato e commentato “La battaglia per i diritti delle ragazze musulmane”, che vengono spesso costrette a sposare uomini molto più grandi di loro, a cui sono state “promesse” dai genitori fin dai primi anni di vita. Ricordo un film (non ne ricordo il titolo) e l’impressione che mi aveva fatto vedere quel vecchio comprare letteralmente una bambina, portarsela a casa e rinchiuderla in prigione, insieme alle altre donne che già possedeva, a sua totale disposizione.
Mentre questa pratica aberrante veniva consumata, fino a qualche decennio fa, lontano dai nostri occhi e dalla nostra consapevolezza, oggi è diventata “quanto mai attuale anche nel nostro Paese (…) Sono stimati duemila casi all’anno – osserva Tiziana Dal Pra, presidente dell’Associazione Trama di Terre di Imola – Ma siamo di fronte a un fenomeno sommerso in cui molte volte le ragazzine non riescono a chiedere aiuto” (G. Longo).

“Le ragazze sono la vera posta in gioco”, ostaggi di “una comunità sempre più chiusa, rigida e conservatrice, autoreferenziale e con la fobia di perdersi nella contaminazione” e della nostra “scelta di non contemplare reali politiche di integrazione, con la scusa di non disturbare i musulmani a casa loro” (K. Moual).
Oggi le cose stanno cambiando, ci dice questo articolo: le ragazze musulmane nate in Italia sono meno disposte a sacrificarsi e si confidano con le loro coetanee, che le aiutano a ribellarsi.
Dobbiamo trovare il coraggio e le parole per dire che queste ragazze sono anche nostre figlie, che anche di loro dobbiamo sentirci padri (e madri) adottivi, incoraggiandole e sostenendole nell’affermazione del loro desiderio di autonomia, di felicità, di vita.

Credo che dovremmo cercare di coinvolgere nei nostri percorsi di autocoscienza maschile anche uomini musulmani…
Beppe Pavan