NUMERO 2 – 2017

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n° 2 – 2017 ISSN 1720-4577

 

 

ERA MIA MADRE
Parafrasando le battute finali di un film stupendo di Sam Mendes, Road to Perdition.
Gli inverni non sono mai freddi a Palermo, e anche in questo giorno di febbraio di tanti anni fa c’è un gran caldo e addirittura un terribile vento di scirocco che imperversa e impedisce al mio aereo di atterrare a Punta Raisi, e mi costringe a sbarcare all’aeroporto di Catania. A metà strada, mentre sono sul pullman, mi raggiunge l’autista di mio padre, ed è lui a comunicarmi la notizia che mia madre è morta.
Sono stato avvertito questa mattina stessa dell’aggravarsi delle sue condizioni: i miei mi hanno cercato all’indirizzo di Firenze dove ero temporaneamente alloggiato, ma, avendo litigato con la ragazza che mi ospitava, da qualche giorno mi ero trasferito altrove, e così sono riusciti a beccarmi solo quando è tutto finito.
In poche parole, quando arrivo a casa, lei non c’è più.
C’è il suo corpo disteso sul letto con le mani giunte come in preghiera, come si usa fare in questi casi. Ora che ci penso, mi sa che è la prima volta che mi capita di vedere una persona morta, sicuramente la prima volta di una persona a me cara. Rimango da solo nella stanza, solo coi miei pensieri che vagano come pulviscolo nell’aria, solo col mio dolore, solo con la mia voglia di piangere. C’è qualcosa di teatrale in questa scena, mi sento come un attore che obbedisce a un copione scritto da altri: la rappresentazione di un lutto che esige lacrime che però, per quanto mi sforzi, non vengono. Mi sento oppresso, oppresso da mio padre che mi ha accolto sulle scale ripetendomi “non c’è più casa, non c’è più casa”, oppresso da due vecchie zie raccolte in preghiera, dalle loro vesti nere, dal loro monotono biascicare, oppresso da mia sorella che, poverina, ha perso la mamma in età ancora così tenera e mi fa provare una pena e un senso di colpa infiniti… che fratello sono che l’ho abbandonata e non sono riuscito a proteggerla…, oppresso dall’atmosfera di questa casa silenziosa, oppresso da carezze che non desidero, da frasi che non voglio ascoltare.
La mattina dopo sono a tavola: la nostra governante ha servito il tè, ma mentre sto per portare la tazza alle labbra mi rendo conto che era mia madre a prepararmi la colazione quando ero a casa e che mia madre non c’è più, non c’è più lei a nutrirmi, che il filo materiale e simbolico che ci ha unito per anni si è definitivamente spezzato. E allora finalmente scoppio a piangere, a piangere lacrime inarrestabili e copiose, perché ora mia madre, suo malgrado, per la seconda volta dopo il trauma della nascita mi ha gettato nel mondo, ma stavolta mi ha lasciato irrimediabilmente solo.
Ricordo i miei primi passi con lei, mano nella mano, ricordo lei che mi accompagna all’asilo e io le racconto che mi sono innamorato di una certa Adriana, che chissà chi è e che fine ha fatto nel frattempo, e poi a scuola, e io che ci vado malvolentieri e invece vorrei tanto stare a casa a guardarla mentre dirige le operazioni domestiche come un inflessibile generale, e poi, dopo due anni oscuri di bambino apprensivo e svogliato, finalmente in terza elementare rifiorisco da primo della classe e le mostro con orgoglio i miei temi di italiano e i miei problemi di aritmetica premiati con voti altissimi, e poi al cinema, a vedere tanti ingenui film d’avventura come si facevano allora, e io ho già dimenticato Adriana e ora invece ho una cotta per Kirk Douglas, da quando lei mi ha portato a vedere Ventimila leghe sotto i mari, e Ulisse, dove però non capisco, e neanche lei lo capisce, perché Circe e Penelope sono interpretate dalla stessa attrice. Sante o puttane, è quello che la gran parte degli uomini pensa delle donne, oppure sante e puttane nello stesso tempo… ma questo lo imparo molto più tardi. E però sono anche irrequieto e la faccio disperare, e lei fa la spia e mi accusa dinnanzi al terribile tribunale paterno e per la prima volta mi delude. E io, che pure amo mio padre, ne sperimento l’inflessibilità e ne subisco il castigo. Ma lei a volte si sottrae alle logiche di quel tribunale e si fa protagonista di innocenti trasgressioni, come quando mi fa da complice in piccoli scherzi telefonici o quando si mette a ballare il can can scoprendo le gambe davanti alla mia nonna paterna che la guarda sorridendo divertita. Ed è serena, tutto sommato contenta della sua vita familiare, anche se ogni tanto l’assale un pizzico di nostalgia per sua madre, e soprattutto per le sue sorelle che vivono lontane e che d’altra parte un po’ la snobbano, loro così intellettuali o presunte tali, e una pure politicamente impegnata e che si dice abbia addirittura conosciuto Mao Zedong.
E poi cresco, e da adolescente scopro il potere misterioso e irrefrenabile del sesso, la voglia intrattenibile di scopare o, al peggio, di farmi le seghe, ed è tutto un rovistare tra le lenzuola alla ricerca di macchie impure, e un continuo interrogarsi su chi è questa e chi è quella, e che fa suo padre, e che ragazza è una che organizza feste a casa sua, figuriamoci, le festicciole del sabato pomeriggio con i balli lenti e i genitori che controllano a distanza, le prime timide esplorazioni, qualche stretta un po’ più audace, il fugace contatto con morbide rotondità, aliti profumati di menta, andiamo al cinema sabato prossimo?, e alle nove, nove e mezzo al massimo, tutti a casa.
E le mie storie più serie, anni dopo, ragazze che non obbediscono al tuo modello, troppo indipendenti, troppo disponibili ad accogliermi nelle loro case, nei loro letti, e io che ti sento lontana e quasi ostile, e mi piacerebbe una madre più giovane, più “moderna”. E ora che non ci sei più vorrei averti parlato di più di me, vorrei essermi messo in gioco e avere giocato con te, come da bambino, vorrei averti costretto a essermi amica oltre che mamma. Se ci fossi ancora ti parlerei del femminismo, di come mi ha reso un uomo – migliore o peggiore non so – sicuramente diverso, ti racconterei di come è bello amare ed essere amati, e che importa se lo facciamo diverso da come ci hanno insegnato, e come è bella la tenerezza di una donna, amante, amica, sorella, e come è bello stare insieme ad altri uomini e non provare invidia o gelosia o rancore, e come è bello accarezzare i figli e le figlie, e che importa se appartengono a te o ad altri, e come è bella la vita, anche quando si dimentica di sorriderci.
Che posso dire di più? A chi mi chiede di lei, a chi mi chiede che donna fosse, io do sempre la stessa risposta. Dico soltanto: era mia madre.

Mario Simoncini (Maschile Plurale)

 

LE DONNE, IL NUOVO CHE AVANZA
Nei giorni in cui parliamo e ci confrontiamo sull’esigenza di nuove forme della politica: dalla competizione alla cooperazione; nei giorni in cui riprendiamo queste riflessioni “utopiche” anche nel gruppo uomini e con operai di fabbriche in crisi… mi sembra un “segno” l’aver ritrovato questo articolo di Federica Tourn, che ci dà speranza – a me, a noi, al mondo – a condizione di non leggerlo con superficialità, ma pensando con attenzione al messaggio che ci trasmette: “le donne sono il vero nuovo che avanza”. A noi uomini la scelta di partecipare con convinzione al loro avanzamento, consapevoli che anche il nostro cammino di cambiamento appartiene a questa novità… (bp)

21 gennaio 2017: due milioni e mezzo di persone in tutto il mondo, cortei in 161 città, mezzo milione nella sola Washington: la più grande manifestazione mai vista negli Stati Uniti (…) che dice no a discriminazioni di genere, etnia, preferenze sessuali, censo (…).
25 novembre 2016: a Roma duecentomila persone sono in corteo per denunciare la violenza contro le donne e i femminicidi; un’ondata di indignazione che prende il via dall’ennesima uccisione in Argentina di una ragazza di 16 anni e che a fine ottobre riversa in strada migliaia di donne in tutto il Paese, un movimento che si allarga all’intera America Latina al grido di “Ni una menos”, non una di meno.
Polonia, inizio ottobre: un milione di donne (e uomini) in nero scende in strada nella capitale per protestare contro la decisione del Governo di irrigidire ulteriormente una legge già molto dura contro l’aborto. (…) E lo Stato fa un passo indietro e ritira la proposta di legge.
Sempre a ottobre, 4000 donne cristiane, ebree e musulmane fanno a piedi i 200 Km che separano il Nord di Israele da Gerusalemme, per chiedere la fine del conflitto israelo-palestinese entro quattro anni (…) contribuendo a tenere alta l’attenzione sui muri e le guerre in tutto il mondo.
Manifestazioni diverse, in paesi diversi, che hanno avuto un successo enorme e con un denominatore comune: sono state tutte organizzate da donne, solo con il passaparola dei social 2, certo, delle reti di donne e femministe che non hanno mai smesso di decostruire l’immaginario patriarcale e le conseguenti disparità sociali che ancora vogliono le donne subalterne nel lavoro, in famiglia, nei luoghi di potere. Manifestazioni volute da donne ma trasversali, che si sono aperte subito agli uomini e hanno rivendicato la fine di ogni tipo di ingiustizia. (…)
Anche se i media sembrano glissare sul punto, è evidente che gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno definito le donne come l’unico soggetto politico capace di mobilitare grandi masse di persone e influire sulle decisioni di Stati e governi. Altro che Trump e populismi vari, questo è il vero nuovo che avanza.

Federica Tourn – Riforma 3.2.17
PROSTITUZIONE: LA FRANCIA E IL MONVISO
Ho letto e conservato, sul numero 432 (maggio 2016) de Il Foglio – mensile di alcuni cristiani torinesi, un articolo di Andrea Lebra che racconta l’iter e i contenuti della nuova legge francese in materia di prostituzione, datata 6 aprile 2016. Lebra la presenta come “nuova, ambiziosa e condivisibile”. Riassumo a modo mio:
nuova rispetto alla normativa precedente, che considerava la prostituzione “come un male inevitabile a causa dell’incontenibilità delle pulsioni sessuali di cui sarebbero dotati i maschi”;
ambiziosa perché si pone l’obiettivo non solo di contrastare tratta e sfruttamento sessuale di esseri umani, ma soprattutto di “realizzare un cambiamento progressivo di mentalità per scoraggiare, fino a farla sparire, la pratica della prostituzione, in quanto incompatibile con la dignità e il valore della persona umana”;
condivisibile perché “ritiene che la prostituzione sia una forma di violenza nei confronti della donna e impedisca una vera uguaglianza tra i sessi”.

Mi sembrano assolutamente centrali alcune riflessioni che hanno dato al Parlamento francese la convinzione e l’energia per varare questa legge:
“La nozione di ‘bisogni sessuali incontenibili’ dei maschi rinvia a una concezione arcaica e degradante della sessualità, che favorisce lo stupro. (…) La prostituzione si inscrive nella lunga tradizione maschiocentrica che rende i corpi delle donne disponibili per l’uso che ne vogliono fare a piacimento gli uomini (ius primae noctis, debito coniugale, aggressioni fisiche, minacce armate, stupro, molestie sessuali, atti persecutori o stalking). La società non può accettare che la libertà di alcune persone (i clienti) sia fonte di oppressione per altre persone (donne nella prostituzione)”.
La maggioranza delle persone che si prostituiscono – scrive Lebra – sono vittime di violenze devastanti per la loro salute fisica e mentale. “Tutte le persone fuoriuscite dalla prostituzione concordano nell’affermare che un rapporto sessuale coatto o senza altro desiderio se non quello del denaro è distruttivo e lascia delle tracce indelebili. Le ricerche dimostrano altresì che gli uomini che acquistano sesso hanno un’immagine degradante della donna”.
“La prostituzione può regredire solo grazie a un cambiamento progressivo di mentalità e a un paziente lavoro di prevenzione, di educazione e di responsabilizzazione dei clienti e di tutta la società. (…) perché “la domanda che incrementa tutte le forme di sfruttamento delle persone incide negativamente sulla parità di genere e viola il principio della dignità umana”.

E il Monviso… che c’entra?

Non parlo del Re di Pietra, ma del settimanale del pinerolese che porta questo nome. Su un numero a caso, che ho ricevuto in omaggio mentre passeggiavo per la città nei giorni della fiera, una mezza pagina abbondante è dedicata ai cosiddetti “annunci personali”: sono tutti di offerte di “piacevolissimi e intensi momenti di relax” da parte di “italiane” o di ragazze “appena arrivate in città”, che ricevono a domicilio e forniscono , quindi, il numero del cellulare. Ne ho contati 22: 21 donne e 1 uomo. Sembrano scritti dalla stessa mano, con aggettivi descrittivi che si ripetono pari pari, anche quando a scrivere è una donna straniera “appena arrivata”… Anche nel Pinerolese, evidentemente, la domanda è notevole…
Spero che la Redazione del Monviso si faccia qualche domanda e, soprattutto, cerchi le risposte adeguate. Da parte mia… non spenderò mai un euro per comprare questo giornale.

Beppe Pavan

SETTE MINUTI

Partecipando al gruppo uomini ho capito che cambiare in meglio si può, partendo dall’autocoscienza: riconoscendo e nominando le modalità di vita precedenti – privilegi, pregiudizi, pigrizie, superiorità… in una parola: la cultura patriarcale in cui siamo nati e cresciuti – e scegliendo di cambiare. Vivo meglio e sono felice.

“7 minuti” è il titolo di un film che la CGIL di Pinerolo ha proposto per l’8 marzo scorso. Non ve lo racconto, ma vi invito caldamente a cercarlo e vederlo.

Il sindacato che mi invita e mi propone quel film fa un’operazione splendida, ma perché non resti fumo negli occhi i suoi e le sue dirigenti e tutti/e gli/le iscritti/e devono fare autocoscienza: la progressiva perdita di diritti e dignità dei lavoratori e delle lavoratrici in cosa dipende da loro? dalle pratiche sindacali che a partire dalla marcia dei capi FIAT dell’80 hanno visto ribaltata la stagione precedente delle lotte per diritti e dignità?

Non basta puntare il dito sul Jobs Act: quello è l’ultimo anello dei tanti “7 minuti” a cui abbiamo via via rinunciato, nel frustrante tentativo di salvare quello che nessun sindacato riesce più a salvare. La vicenda PMT insegna.

beppe
L’AMORE SPIEGATO A UNA FIGLIA
Da una conversazione fra una madre e una figlia decenne. «Ma tu, mamma, hai mai amato qualcuno oltre papà?». «Uhmmmm…sì». «Ah, e lui lo sa?». «Certo. E comunque anche lui ha amato qualcun’altra prima di me». «Ma hai amato amato? Da pensare di sposarlo?». «Beh, in certi casi sì». «In quanti casi?». «Un paio». «E come fai a essere sicura, adesso, che non ricapiterà?». Pausa e poi: «Uhmmmm… non posso esserne sicura al cento per cento, anche se, quando scegli da adulta, sei molto più sicura di quello che fai, rispetto a come puoi scegliere da più giovane». «Quindi non c’entra nulla il sentimento. Non ti reinnamorerai solo perché sei vecchia». Da notare che la suddetta è attorno ai quaranta.
I commenti delle amiche della madre sono stati: «Ha ragione lei. La tua risposta sa di naftalina. Tua figlia ha una logica ferrea. Sei sicura che da adulte si sceglie meglio?». E la madre, accortasi dello scivolone, ha risposto alle amiche: «Lo so. È un po’ come quando le spiegai che gli zombie sono dei morti che si risvegliano dalle tombe e lei se ne uscì con un “Quindi Gesù è uno zombie”. D’altra parte, penso che un genitore non debba comportarsi come un amico dei figli e che non debba raccontare tutti i propri segreti e il proprio passato».
Benvenuti nel difficile mondo dell’educazione sentimentale che oggi è molto più complessa di un tempo, semplicemente perché una volta non se ne parlava proprio e i figli dovevano arrangiarsi a costruire da soli un proprio percorso, con relativi errori. Oggi, chi ha abituato i pargoli a parlare di tutto, chi non ha decretato che certi argomenti sono tabù, chi ha sempre risposto alle domande più scomode si trova a dover gestire interrogatori e interrogativi che riguardano il proprio vissuto e lì la faccenda si complica.
Bisogna porre dei paletti o no? Si deve essere sinceri su tutto o stabilire dei confini? Si devono dichiarare errori, debolezze ed esperienze o tacerne una parte per salvaguardare l’autorevolezza genitoriale? Posto che la verità rende liberi, penso che non esistano risposte assolute e che ogni caso vada valutato con un gigantesco «Dipende». Dipende dall’età del figlio, da cosa lo si vuole proteggere, dal momento in cui si ritiene necessario, se è necessario, svelare qualcosa, da quanto ci si sente pronti per affrontare nuove domande. Ma, soprattutto, penso che ognuno di noi abbia una sfera di intimità che non va spiattellata ai quattro venti, nemmeno a figli, mariti o amanti, e che c’è un vissuto che deve restare patrimonio personale.
È ammessa una sola deroga, quella della letteratura perché lì si è riparati dal transfert su un personaggio e dall’invenzione, si trasporta l’esperienza in un racconto e in un altrove che permettono di eludere l’autobiografia dichiarata. Poiché non tutti sono romanzieri, possono mettersi a scrivere un’educazione sentimentale o darla da leggere ai figli per motivi di età, a molti genitori resta il dilemma della risposta. Nella mia modesta esperienza, ho trovato che la strada migliore è stata quella di dichiarare apertamente che ci sono dei limiti oltre i quali non si vuole raccontare non per nascondere qualcosa, ma perché ci sono vissuti che si vogliono tenere solo per sé. Perché ognuno impara facendo, perché l’esperienza è personale e non imitabile, perché genitore e figlio non sono un tutt’uno ma persone distinte, perché le emozioni e i desideri non si possono insegnare ma solo provare, e pazienza se nel frattempo si fa qualche errore. Ciò di cui un figlio ha davvero bisogno è sapere che c’è qualcuno che sarà sempre disposto ad ascoltarlo, se vuole parlare. Per il resto, tanti auguri.
Mariangela Mianiti (Il Manifesto 6/6/2017)

 

PATERNITA’ ADOTTIVA.
Anche delle bambine musulmane?

Spesso, nei nostri gruppi di autocoscienza maschile, ci confrontiamo sulla paternità. Abbiamo cominciato raccontandoci dei nostri padri e dei nostri tentativi di essere padri “non come loro”, assenti, maneschi, violenti, autoritari… Nessuno ci insegnava; avevamo solo modelli che rischiavamo di ripetere inconsapevolmente. O sbagliavamo tutto, volendo buttare il bambino “paternità” con l’acqua sporca dei modelli che non volevamo incarnare più, magari proponendoci di essere “amici”, invece che padri, dei nostri figli e delle nostre figlie.
Grazie alle nostre compagne, a letture, a confronti con insegnanti, alla riflessione sugli errori commessi… e soprattutto all’amore, tenero e tenace, per figli e figlie, abbiamo potuto raccontarci storie a lieto fine.
Qualcuno, a quel punto, ha introdotto la “paternità adottiva”: non solo siamo padri adottivi di figli e figlie delle nostre compagne, che loro generano e poi ci presentano, invitandoci ad amarli/e come figli e figlie anche nostri/e; ma siamo invitati a sentirci responsabili padri adottivi verso tutti i bambini e tutte le bambine che vengono al mondo, a cominciare da quelli e quelle con cui entriamo in relazione.
Questa nostra responsabilità, consapevole e vissuta con coerenza, può contribuire a generare un mondo nuovo. Basta pensarci un attimo per convincercene: per i nostri e le nostre vogliamo solo il bene… se lo volessimo davvero per tutti e tutte?

Su La Stampa del 9 aprile scorso Grazia Longo e Karima Moual hanno raccontato e commentato “La battaglia per i diritti delle ragazze musulmane”, che vengono spesso costrette a sposare uomini molto più grandi di loro, a cui sono state “promesse” dai genitori fin dai primi anni di vita. Ricordo un film (non ne ricordo il titolo) e l’impressione che mi aveva fatto vedere quel vecchio comprare letteralmente una bambina, portarsela a casa e rinchiuderla in prigione, insieme alle altre donne che già possedeva, a sua totale disposizione.
Mentre questa pratica aberrante veniva consumata, fino a qualche decennio fa, lontano dai nostri occhi e dalla nostra consapevolezza, oggi è diventata “quanto mai attuale anche nel nostro Paese (…) Sono stimati duemila casi all’anno – osserva Tiziana Dal Pra, presidente dell’Associazione Trama di Terre di Imola – Ma siamo di fronte a un fenomeno sommerso in cui molte volte le ragazzine non riescono a chiedere aiuto” (G. Longo).

“Le ragazze sono la vera posta in gioco”, ostaggi di “una comunità sempre più chiusa, rigida e conservatrice, autoreferenziale e con la fobia di perdersi nella contaminazione” e della nostra “scelta di non contemplare reali politiche di integrazione, con la scusa di non disturbare i musulmani a casa loro” (K. Moual).
Oggi le cose stanno cambiando, ci dice questo articolo: le ragazze musulmane nate in Italia sono meno disposte a sacrificarsi e si confidano con le loro coetanee, che le aiutano a ribellarsi.
Dobbiamo trovare il coraggio e le parole per dire che queste ragazze sono anche nostre figlie, che anche di loro dobbiamo sentirci padri (e madri) adottivi, incoraggiandole e sostenendole nell’affermazione del loro desiderio di autonomia, di felicità, di vita.

Credo che dovremmo cercare di coinvolgere nei nostri percorsi di autocoscienza maschile anche uomini musulmani…
Beppe Pavan

 

“BENE e MALE” o “BUONO e CATTIVO”?

Leggo, su L’Espresso del 16 aprile scorso, un articolo di Michel Onfray, che mi ha segnalato la mia amica Maria, memore di quando abbiamo letto, nel gruppo “ricerca” il suo Trattato di ateologia.
Nell’articolo il filosofo francese riflette sul “cinismo planetario” dei cosiddetti “grandi”: “E’ sbagliato credere che in politica il Bene e il Male un giorno abbiano avuto un ruolo preciso nella Storia: da Alessandro il Grande a Trump, da Cesare a Putin, da Tamerlano a Erdogan, da Gengis Khan a Xi Jimping, i feroci personaggi politici il cui nome è inciso nel marmo della Storia hanno sempre agito al di là del bene e del male”.

Si sofferma poi un attimo su Trump, per ribadire la sua convinzione che anche lui non sia altro che “ciò che sono tutti i presidenti eletti degli Stati Uniti: semplicemente giocattoli nelle mani del Capitale (…) una marionetta nelle mani del capitalismo”.
Presumo che ne sia consapevole – parlo di Trump – appartenendo egli a quel capitalismo di cui vuole contribuire a sostenere i programmi. Onfray aggiunge, appunto, che “gli uomini politici non applicano un programma, ma ubbidiscono al programma che rende possibile la loro stessa esistenza (…) in tutto ciò non ci sono né bene né male, ma altri due punti di riferimento, diversi, che non rinviano più alla morale moralizzatrice, bensì alla fisica delle forze, o alla meccanica dei fluidi: il Buono e il Cattivo.
Secondo questo dinamometro attivato assai lontano dal confessionale, è Buono tutto ciò che permette la realizzazione del programma, anche se questo Buono nel linguaggio comune rientra nella categoria del Male; è Cattivo ciò che intralcia o impedisce la realizzazione del programma, anche se questo Cattivo nel linguaggio comune rientra nella categoria del Bene.
Un certo Lev Trotskij rifletté a lungo su questa rozza logica in “La loro morale e la nostra”. Ciò che era male per l’ordine borghese (deportare, sterminare, rinchiudere, perseguitare, giustiziare, terrorizzare, e così via) era un bene per l’ordine rivoluzionario. Conosciamo il seguito e sappiamo come andò a finire, con cento milioni di morti nel nome del Buono…”.

Onfray analizza velocemente gli avvenimenti recenti che hanno travolto l’Iraq, la Cecenia, la Siria, la Libia… e ricorda “i falsi dibattiti sulla stampa che discettarono del concetto di “Guerra giusta” (elaborato dai Padri della Chiesa che auspicarono, così facendo, di giustificare e di legittimare l’imperialismo cristiano sulla totalità del pianeta) all’epoca della Prima guerra del Golfo”.
E conclude: “Non siamo entrati in una nuova era: abbiamo semplicemente barattato l’ironia della “Guerra giusta”, la scappatoia dei “Diritti dell’uomo”, il sarcasmo del “Diritto di ingerenza” con un cinismo esplicito, che mette i politici alleati alle prese con i commercianti di armi, con i dirigenti complici del controllo e del saccheggio del sottosuolo dei paesi assoggettati in nome della lotta contro il terrorismo,con i governanti delle grandi potenze e i loro complici ultra-miliardari che, oltre alle armi, possiedono mezzi di informazione, industrie, banche, tengono un piede in finanza e hanno sul loro libro paga, quando non ai loro stessi piedi, un politico personale di alto grado. (…)

Ma i popoli che appoggiano Donald Trump, Vladimir Putin, Recep Erdogan, Abou-Bakr Al-Baghdadi, pensando che da loro otterranno onore e risarcimento, dignità e potenza, si sbagliano. Non riceveranno niente di diverso da ciò che i popoli ricevono da che mondo è mondo: lacrime, sudore e sangue”.

Beppe Pavan

 

 

STILI DI VITA (ovvero noi e i terroristi)

Avevo voglia di parlare di certe mie piccole manie di melomane (in particolare il fastidio che provo per l’eccessivo uso di fortepiani d’epoca nell’esecuzione moderna di musiche composte tra sette e ottocento: non so se avete mai ascoltato Mozart, o addirittura Beethoven, suonati su questi strumenti dal fastidioso timbro nasale e farlocco, che sembrano anche un po’ scordati. E noi che siamo abituati a goderceli con gli acuti cristallini degli Steinway, o con le asserzioni glaciali di un Bosendorfer sotto le dita di Backhaus!).
Ma mi sembrano argomenti scandalosamente futili nei giorni in cui si ripetono attentati contro cittadini inermi, e si rischia una strage a Torino per la paura di una bomba.

Sentiamo ripetere: la miglior risposta è non cambiare i nostri stili di vita, che rappresentano il vero bersaglio dei fanatici estremisti “radicalizzati”.
Ma come sarà mai possibile? Il mio stile di vita comprende la passione per gli strumenti a tastiera (in realtà una volta mi sono molto divertito a provare un autentico fortepiano a casa di una cara amica), ma oggi non riesco a pensarci con la spensieratezza di sempre.
Continuo a prendere la metropolitana, ma mentre aspetto il treno non posso fare a meno di immaginare che potrebbe esplodere un vagone, e guardo con qualche sospetto il giovane dalla carnagione scura e dalla barba nera che trasporta un sacco o uno zainetto.
E mi sorprendo a riflettere sui rischi mentali che corriamo. Il primo fra tutti, forse, è proprio quello di cercare di rimuovere questi pensieri insopportabili, e con essi il problema che abbiamo di fronte. Si affaccia infatti una specie di rimedio consolatorio: non ci posso fare niente, i terroristi sono una presenza ormai costante del nostro contesto sociale, la loro follia provoca un certo numero di vittime. Ma il mondo va avanti ugualmente.
Non muore tantissima altra gente – molta di più – per cose assurde come gli incidenti stradali, oppure quelli sul lavoro, l’inquinamento, le malattie per cui non si trovano cure, anche per interessi oscuri?

C’è persino chi afferma che in realtà le violenze e le guerre sono in termini relativi diminuite…
Ma è evidente che simili esercizi di rimozione hanno un valore del tutto effimero. Più interessante il riconoscere in noi qualcosa di maggiore consistenza: certo il mio modo di vivere la quotidianità non voglio cambiarlo, anche accettando qualche probabilità in più di diventare per caso una delle vittime (soprattutto a una certa età ci si sorprende a dirsi: bè di qualcosa prima o poi dovrò pur morire), ma il mio modo di ragionare e di valutare le cose – e le stesse mie scelte di vita – invece cambia. È bene che sia così, e soprattutto che io ne sia ben consapevole. Perché possa rimanere padrone delle mie reazioni, delle mie idee e dei miei sentimenti.

Per esempio il modo di valutare la reazione della premier inglese Theresa May: “quando è troppo è troppo”. Sul Corriere della sera Paolo Mieli mi pare giustamente diffida delle affermazioni stentoree e delle promesse impraticabili da parte di chi ha responsabilità di governo.

Più che immaginare soluzioni facili e impossibili, aggiungendo che nulla deve cambiare nei nostri stili di vita, è meglio riflettere, cercare le “parole giuste” per definire e sconfiggere questa guerra mortale che ci invade in molti modi diversi.
Riflettere anche se poi, alla fine, qualcosa sarebbe invece meglio cambiare proprio nei nostri stili di vita e nei valori che li informano.
Alberto Leiss (Maschile Plurale) – Il Manifesto 6.6.17

INCONTRO dei GRUPPI UOMINI di VERONA, PINEROLO e BRIANZA
Il 6 maggio scorso, dopo uno scambio di email per definire e organizzare, alcuni amici dei nostri gruppi si sono dati appuntamento a Triuggio in Brianza. E’ una pratica – l’incontro tra gruppi di territori diversi – che si sta consolidando, perché gli incontri riscuotono consenso e apprezzamento da parte di chi vi partecipa.
Questa volta abbiamo scelto di mettere a disposizione dei lettori di questo foglio la sintesi ordinata che ne ha fatto Danilo Villa. Da parte nostra gli rinnoviamo riconoscimento e ringraziamento per questo servizio prezioso, che ci sta permettendo di riprendere e approfondire i temi che là abbiamo messo sul tavolo. Se ne saremo capaci, faremo circolare anche le nostre riflessioni…

Gli uomini in cammino di Pinerolo

 

REPORT di Danilo Villa

Triuggio (MB) : 6 maggio 2017

PARTECIPANTI:
– Gruppo Brianza: Mario, Franco, Giancarlo, Lino, Ermanno, Fabio, Danilo;
– Gruppo Verona/Brescia: Giovanni, Franco, Michelangelo, Mario, Luciano, Giacomo;
– Gruppo Pinerolo: Gigi, Ugo, Giovanni, Ezio, Beppe, Angelo, Luciano, Francesco, Arcangelo, Marcello

NOTE – APPUNTI
Queste note esprimono in forma sintetica temi, spunti e questioni che hanno caratterizzato una giornata d’incontro tra i gruppi. Sono presentate per “quadri di un dialogo tra uomini” che, come comprensibilmente succede, spesso ritornava e riprendeva gli stessi temi.

Dopo le presentazioni dei presenti e delle esperienze dei gruppi si è affacciato (quasi subito) il tema: “Travasi di senso tra intimità maschili e attività pubbliche per il cambiamento”, sviluppato su tre quadri di dialogo:

vivere e soffrire il conflitto;

travasi di senso: dall’intimità alla vita pubblica ;

il gruppo: cambiamento e trasformazione.

Riprendere e operare una separazione netta dei discorsi, raccolti in questi quadri, ha comportato qualche forzata interpretazione, per cui è possibile riconoscere, nella lettura e nei ricordi di ciascuno, gli aspetti che sconfinano e che opportunamente si travasano da una parte all’altra.

 

1) Vivere e soffrire il conflitto

il conflitto, soprattutto quello di pancia, è ancora la brutta bestia che portandoci all’aggressività toglie qualcosa alla verità delle cause (offusca la vista); lo sperimentiamo qualche volta anche nel gruppo, tra noi, ma è più evidente in contesti più esposti (nelle relazioni con le donne o con altri uomini… o sulle strade);

non si può, è sbagliato entrare in conflitto con il senso e la verità degli altri che nel gruppo si ascoltano e si accolgono (senza giudizio), ma non è scontato farlo, soprattutto quando ci si trova in uno spazio pubblico di relazioni (p.es. gruppi organizzati) dove si interagisce con le dinamiche di potere che ci creano difficoltà nel mantenere quest’apertura all’altro/a;

va riconosciuta e valorizzata la concezione del conflitto come un evento positivo, necessario e utile, per il cambiamento;

il conflitto è nella possibilità di lasciarsi trasformare: non rinunciando alla propria intelligenza che ci chiede di imparare a stare zitti, ad ascoltare e capire cos’ha da dirmi l’altro/a e ogni trasformazione comporta il “patire un conflitto di trasformazione” nel quale posso imparare a evitare, contenere il desiderio e le pulsioni emotive del “far fuori” l’altro/a

vi è una sofferenza con se stessi che nell’ascolto e nel racconto di sé, fatto nell’intimità del gruppo (anche dopo molti anni), fa accadere qualcosa… che trasforma; la trasformazione è nel racconto che mette in parola il disagio;

vi è pure un conflitto interiore che, è stato detto, nell’incapacità di “amare gli altri quanto se stessi”

frase complicata e non so se è stata pronunciata per il suo significato evangelico o (aggiungo io) si riferisce al concetto di A. Capitini sulla necessità di riconoscere e dare valore all’altro/a, nella relazione con lui/lei, non per la sua esistenza ma per la sua presenza. si alimenta della paura di mostrare le proprie emozioni (positive e/o negative); sebbene le emozioni non spiegano pienamente i nostri comportamenti (verso gli altri) e qualche volta possono togliere parole alle narrazioni, esse contribuiscono molto alla loro comprensione, inclusa quella verso se stessi e, di conseguenza, alla ragioni del nostro star male;

il conflitto dentro di noi è più facile, ma mai semplice; esprimerlo nel gruppo è più difficile perché si manifesta in contesti non protetti, pubblici e spesso vi riversa la sua carica;

essere in conflitto con se stessi o con parti di sé attesta una crescita nell’esercizio dell’autocritica: è presa di coscienza, necessaria e utile per il cambiamento. Ma essere coscienti non è sufficiente. Occorre agire di conseguenza, con impegno, su tutto ciò che si desidera cambiare di se stessi e accettare (anzi chiedere, sollecitare) di essere misurati sui risultati concreti (dalle persone con le quali siamo in relazione, da quelle più vicine). Altrettanto richiede di essere pazienti verso se stessi, le proprie fragilità che permangono. Il conflitto con se stessi non si risolve, si vive nella fatica e nella continuità di crescere sempre, ad ogni età e fase della vita;

prendere coscienza dei nostri conflitti interiori, evitando le autogiustificazioni, anzi riconoscendole, ci porta su un cammino di sofferenza che possiamo portare/manifestare nel/al gruppo quale luogo di analisi profonda di come stiamo nelle relazioni. Questa consapevolezza è possibile anche frequentando “la politica” che porta ad occuparsi degli altri
Interpreto questa affermazione come il fare un’esperienza politica votata all’impegno verso gli altri, che nel contempo può mostrare alcune contraddizioni personali e mi permette di prenderne coscienza.;

su conflitto e giudizio: spesso nel conoscere una realtà (dei fatti e delle persone) usiamo i criteri del giudizio e del catalogare per interpretarne il senso. Altra cosa, però, è introdurre il giudizio nelle relazioni per leggerne la qualità dei rapporti, e una cosa è farlo quando si tratta di rapporti di forza e di potere, dove posso agire o subire un giudizio (azione unidirezionale), un’altra è con un amico al quale chiedo e mi sento di esprimere un giudizio su di lui o sulla relazione con lui (azione di reciprocità).

 

2) Travasi di senso: dall’intimità alla vita pubblica

l’esigenza di “espandersi” dall’intimità del gruppo alla dimensione politica pubblica quali travasi di senso richiede? E, in questo caso, quale distinzione è possibile tra privato e pubblico? Sono domande che richiedono un approfondimento nella cornice di una analisi tra l’esperienza personale del quotidiano, quale spazio delle relazioni dirette, con quella collettiva (per il cambiamento sociale) dove le relazioni sono mediate dai soggetti organizzati con i quali si interagisce (gruppi , associazioni, partiti, sindacati…);

la discussione nei gruppi non avviene per argomenti programmati (modalità guidata) ma su ciò che ciascuno porta in quel momento e spesso sono i vissuti rispetto a dinamiche di conflitto e di aggressività in famiglia, sul lavoro, con le donne…; questa modalità spontanea determina lo spazio dell’intimità del gruppo e le dà senso. E’ anche una modalità di apprendimento di una pratica relazionale immediata, schietta, genuina, che può riverberarsi nella vita pubblica di ciascuno di noi;

partire da sé, rifiutando approcci intellettualistici, è il chiodo fisso, la pietra angolare del vivere l’esperienza nel gruppo che difficilmente può travasarsi in uno spazio pubblico, dove le interfacce (intimità e azione pubblica) producono scarti
Scarti di incomprensioni, dialogo,… non sono in grado di specificarlo, ma ho ritenuto comunque di riportare questa affermazione perché lascia aperta una questione importante. E poi cosa abbiamo da dire? Non abbiamo una linea, un pensiero dicibile come fosse un programma politico, non possiamo parlare in nome e per conto del gruppo ma, eventualmente, solo per se stessi;

la ricerca intima che avviene nel gruppo, che ha come presupposti l’ascolto che sa sospendere il giudizio e la non aggressività ecc…, è un allenamento, una palestra di senso, pratiche e valori che si riversano anche fuori, senza avere l’atteggiamento di chi vuole catechizzare una società, ma di chi desidera cambiare a partire dal come si vivono e si instaurano le relazioni in ogni contesto;

nel gruppo c’è qualcosa di prezioso che non è facile portar fuori, anche se è possibile; sono competenze nelle modalità relazionali capaci di stare nelle “verità sacre” delle persone (pur contrastanti a volte) in modo creativo e utili per poter affrontare i grandi problemi del mondo. Sono competenze maturate dalle nostre pratiche orientate al cambiare noi stessi, i nostri bisogni radicali di senso. Competenze che possono aiutare a cambiare i contesti (associativi, di gruppo, di movimento…) nei bisogni radicali di nuovi sistemi etici e valoriali. Sono competenze educative che non s’impongono (come avviene nella scuola) ma lasciano “libera crescita” (soggettiva e collettiva) in mondi di senso, di dialogo e valore condivisi;

travasi di senso: avvengono già nell’esperienza del gruppo in quanto realtà aperta e non chiusa su se stessa, nella quale ognuno porta dentro e porta fuori i suoi valori, principi, desideri, attese, ma anche inquietudini, sofferenze, sconfitte… C’è da chiedersi però se ogni gruppo è o vuole essere anche una esperienza che si radica nel suo territorio, ne diventa un’espressione culturale, di riferimento, seppur minoritaria, scambiando sistemi di valori e pratiche di trasformazione;

travasi di senso: il primo sta nel nostro coraggio (anche dopo molti anni) di parlare ad altri uomini del nostro disagio e incamminarci tutti sul “sentiero della consapevolezza”; il secondo riguarda il gruppo, dove è importante non tanto corrispondere al pensiero e alle attese femministe, ma trovare la felicità di vivere nuove relazioni tra uomini e imparare a viverle con le donne (il sentiero delle pratiche); il terzo è nella possibilità delle contaminazioni che ciascuno di noi può fare verso altri singoli uomini (anche di potere) attraverso un dialogo che sollecita la sostituzione di dinamiche competitive con quelle collaborative e orientate al bene comune (il sentiero della comunanza);

c’è una tensione tra interno ed esterno al gruppo difficile da risolvere se non dentro ciascuno di noi che, acquisendo forza dall’intima relazione con il gruppo, rafforza le ragioni del suo impegno nel sociale;

il gruppo non può bastare, è una esperienza che deve aprirsi per stare nella mescolanza delle contraddizioni (sociali e individuali), anche perché non avrebbe senso acquisire, grazie al gruppo, coscienza delle nostre contraddizioni se poi fuori ci si comporta esattamente come prima
Dagli appunti mi è difficile chiarire meglio cosa effettivamente è stato detto.

Nell’impegno pubblico la forza ricevuta dal gruppo ci porta, anche negli ultimi anni della nostra vita, ad occuparci dei grandi conflitti sociali partecipando ad un movimento che dal basso interroga le giovani generazioni sul futuro del mondo;

nella solitudine degli uomini, di un maschile silente, le nostre esperienze trovano risonanze e attenzioni sociali, ma non promuovono movimento negli uomini, non travasano sufficiente forza; siamo voci… nella solitudine;

conflitti di senso interiori: a volte chiamiamo conflitti ciò che sono altro, sono più delle disarmonie, delle scontentezze, delle frustrazioni verso noi stessi per lo scarto tra ciò che desideriamo essere e ciò che siamo, tra i nostri valori e i nostri comportamenti (dis-valore), come per esempio nel desiderio di pace, di vivere nella pace, e l’essere invece protagonisti/partecipi di relazioni conflittuali, di lotte…

 

3) Il gruppo: cambiamento e trasformazione

nel gruppo affrontiamo le nostre sofferenze (di una vita) parlando di noi e ascoltandoci con fiducia e garanzia di riservatezza; nell’intimità protetta dal gruppo “ti puoi buttare” e il suo kit di sopravvivenza (effetto paracadute) permette l’accettazione di noi stessi, delle nostre turbolenze non dicibili (i nostri “vizietti”) perché l’ascolto amorevole degli altri è tutela dello spazio personale;

non giudico nel gruppo, giudico me stesso; imparando a parlare delle cose più difficili mi permetto il cambiamento che sta nel riconoscimento reciproco delle positività di ciascuno

grappolo di domande: il gruppo nella pratica di autocoscienza critica rischia un eccesso? Quante volte ci siamo soffermati nella ricerca di ciò che di buono, di bello, di positivo c’è in noi come uomini (maschi)? Come l’esperienza del gruppo ci aiuta a riconoscere i nostri carismi? Oltre all’autocritica cosa possiamo dire di noi? Quale possibile riconoscimento di positività reciproche attuiamo come pratica di nuove relazioni tra uomini? Esiste una sapienza maschile? Una positività del nostro genere che ci avvicini nel dialogo con tutti gli uomini? E i nostri gruppi che sapienza esprimono?

Sapiente è colui che sa (competente), trasmette (maestro), tace (parla con l’esempio) e noi , maschi (… in trasformazione…) di cosa siamo competenti? cosa sappiamo trasmettere di buono? e quando siamo di esempio? e per chi?

Siamo gruppi di ricerca, e non solo di discussione, per l’apprendimento di relazioni di qualità tra noi, con le donne, con il mondo; dobbiamo allora ampliare il nostro linguaggio per esprimere mondi più ricchi di senso, dentro di noi e tra noi e nella dinamica politica che ci appartiene;

l’empatia è un valore del gruppo che ci identifica come una comunità;

i nostri sono gruppi educativi che cambiano e ci cambiano;

il nostro “sol dell’avvenire” più che un risultato è un metodo per un cammino: quello di diventare uomini che stanno sulle proprie gambe;

 

IL GIOCO DELLE 3 SEDIE
A conclusione della giornata abbiamo dichiarato, attraverso il gioco, cosa ci è piaciuto/non piaciuto e le nostre proposte per continuare.
Riporto quelle che mi sono appuntato:

a) mi è piaciuto: ascoltare e assorbire della buona energia; scoprire uomini diversi alla ricerca di senso e liberi dal bisogno; la spontaneità di parlare dell’amore; l’empatia che ci unisce; la definizione di conflitto come possibilità di lasciaci trasformare; l’esserci finalmente trovati insieme; aver sperimentato un incontrarci che ha ampliato le prospettive; ascoltare ricevendo cose da ruminare; l’emozione di aver incontrato visi conosciuti e quella di una densa umanità che avevo provato la prima volta che sono arrivato al gruppo; il gruppo allargato; il coraggio, la caparbietà e la tenacia del nostro lavoro; la relazione tra noi; l’invito a lavorare sulla sapienza maschile; l’invito a lavorare sul positivo maschile per incontrare altri uomini;

b) non mi è piaciuto: lo spazio e il tempo ridotto, avrei preferito lavorare per piccoli gruppi; la pigrizia di venire (dissolta dopo essere arrivato); non aver mangiato la torta salata; l’aver già terminato; il poco tempo; niente non mi è piaciuto; lasciato alla fine e in sospeso il tema della sapienza;

c) proposte: dare continuità allo scambio, per esempio con la comunicazione e la frequentazione tra gruppi;
comunicare per e-mail;
continuare con sincerità;
facendo i conti con le nostre fragilità dar valore a quel che facciamo lavorando sul lessico;
rincontrarci;
darci continuità, ma come?;
coinvolgere il nuovo gruppo uomini di Milano (il cerchio degli uomini di Milano);
rivederci a scadenze non ravvicinate;
rivederci a settembre;
attenzionare il tema della sapienza e ritrovarci a parlarne;
sapienza: rifletterci insieme scambiandoci i lavori nei gruppi;
perseveranza legata al coraggio dell’ironia…

Danilo
Tim Anderson, LA SPORCA GUERRA CONTRO LA SIRIA. Washington, regime e resistenza,
ed. Zambon, 2017

Questo libro non racconta solo la genesi e gli sviluppi della guerra che sta martoriando la Siria. E’ anche un “manuale” di lettura delle crisi che da alcuni decenni stanno sconvolgendo il Medio Oriente e i Paesi “arabi” che si affacciano sul Mediterraneo. Ci offre un paradigma per capire, invitandoci a usarlo con indipendenza critica di pensiero.
Il capitolo che riassume e rilancia le questioni fondamentali che l’autore sviluppa nelle precedenti 250 pagine è il capitolo 13, in cui sintetizza le forme dell’intervento occidentale e ne individua le motivazioni nella persistente “mentalità coloniale”.
La prima forma è la “colonizzazione del linguaggio”, con la quale “l’Occidente reinventa attivamente la propria storia allo scopo di perpetuare la mentalità coloniale” (p. 251). A questo scopo le “culture imperiali hanno inventato un’ampia varietà di pretesti dal suono accattivante” per giustificare i loro interventi militari, diretti o per procura, nelle ex-colonie e nei Paesi di recente indipendenza. Questi pretesti abbiamo imparato a conoscerli: si chiamano, di volta in volta, “protezione dei diritti delle donne” (v. Afghanistan) oppure “instaurazione di una buona governance” (v. Iraq, Libia, Siria…) o “sostegno alle rivoluzioni” (v. Egitto, Siria…) o ancora, più italicamente, missioni umanitarie, missioni di pace, missioni di polizia internazionale (v. D’Alema e successori). Non dimenticheremo mai la plateale menzogna dell’amministrazione Bush sulle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein.
In realtà ce ne ricordiamo quando qualcuno ce lo rammenta, ma subito pensiamo ad altro… mentre, invece, l’Occidente, governi USA in testa, continua a usare quel modello, che ancora funziona. Anche perché viene sostenuto dalla propaganda capillare degli smemoratissimi “media embedded”, dove embedded sta per “incorporato, cooptato”, praticamente “a libro paga”: i mezzi di comunicazione più letti e seguiti sono in mano ai miliardari sostenitori dei candidati alla presidenza USA o ai loro alleati tra i Paesi del Golfo.
Tutto questo è diffusamente documentato da Anderson. Se non ci fossero altre ragioni per scegliere di andare “oltre le religioni”, di abbandonare tutte le religioni nelle loro forme istituzionalizzate, a noi sembra che basterebbe questa: per annullare la “grande scusa”, la coperta sotto la quale si commettono le più atroci ingiustizie nelle relazioni tra persone, tra governanti e governati/e, tra uomini e donne, tra nazioni, tra gruppi di potere in competizione per il dominio. Le religioni che hanno giustificato e ancora giustificano omicidi, stragi e guerre sono state e sono armi di distruzione di massa. L’Occidente “cristiano” faccia autocoscienza, per primo a partire da sé, e l’ONU diventi il luogo supremo di questa autocoscienza planetaria.

Il capitolo più difficile e doloroso, per me, è quello in cui l’autore elenca tra gli embedded anche alcune ONG che vanno per la maggiore e che ho sempre considerato “dalla parte giusta”: AVAAZ, Human Rights Watch, Amnesty International… Soprattutto per quest’ultima ho ricevuto una vera doccia fredda; eppure a pag 133 il quadro che l’autore ne traccia è sconfortante. Mi riprometto di parlarne con gli amici e le amiche che la sostengono da anni con molta convinzione, ricevendo anche il mio appoggio e un po’ del mio denaro.

Tornando alla Siria: nel 2011, nel periodo delle primavere arabe, anche in Siria si stava sviluppando un “movimento per le riforme politiche”, le cui prime manifestazioni vennero infiltrate da uomini armati che aprirono il fuoco su poliziotti e civili. Il “mito occidentale” parla, invece, di violenze indiscriminate da parte delle forze di sicurezza siriane per reprimere le manifestazioni politiche e sostiene che i “ribelli” sono nati in questo movimento di riforma.
Questa è stata la scusa buona per indurre gli USA ad esercitare la “responsabilità di proteggere” (cap. 10), nuova versione dell’intervento umanitario. Che contraddice – lo capiamo bene – tutte le solenni dichiarazioni, quella della Carta delle Nazioni Unite e quella della Carta dei Diritti Umani, che affermano il diritto degli Stati e dei popoli all’autodeterminazione. Qui si svela il “doppio gioco” dell’Occidente, basato sulla dottrina nordamericana secondo cui “una superpotenza benevola non sfrutta il proprio ruolo dominante, ma si prodiga nel sacrificio di sé allo scopo di fornire un ‘bene pubblico’ a tutti” (pag. 209). Mica male!

Qui entra in ballo la seconda faccia della medaglia “mentalità coloniale”: anche le popolazioni dell’Occidente colonialista subiscono l’impatto di questa eredità culturale, convincendosi che la propria cultura sia “centrale, se non universale, e hanno difficoltà a prestare ascolto ad altre culture o a imparare da esse” (pag. 251). La storia dell’imperialismo occidentale non è finita, ma tocca anche a noi aprire gli occhi e imparare a guardarci intorno con attenzione critica. E riflettere su questo “senso maschile per la violenza e il sangue”, che dà pessima prova di sé dovunque.
Tim Anderson documenta, sulla base di una notevole mole di testimonianze scritte e orali, che “quasi tutte le atrocità attribuite all’esercito siriano sono state commesse da islamisti sostenuti dall’Occidente”, e che l’ISIS “è una creazione degli USA e dei suoi più stretti alleati”.

Ovviamente vi rimando alla lettura del libro per conoscere la sua ricostruzione dei fatti e le sue fonti di informazione. Da parte mia termino dicendo che sono pregiudizialmente e consapevolmente contrario a ogni forma di potere colonialista, a qualunque livello. “Pregiudizialmente” vuol dire che mi sono fatto una convinzione radicata sul “potere” e sulle sue pratiche, “dopo” averlo conosciuto; quindi, in realtà, non è un pre-giudizio, ma una convinzione motivata. Sono contrario a prescindere, anche prima di conoscere i dettagli.

E poi… Che vita è uccidere e venire uccisi? Vivere nella paura e nel terrore? Non c’è più agricoltura, artigianato, servizi sociali pubblici… solo ricerca di sopravvivere, di nascondersi, di fuggire… Se succedesse a noi? qui dove viviamo?
Perché non pretendiamo che i nostri governi smettano di praticare, sostenere, appoggiare chi uccide in qualunque altrove? Solo per ingrassare i già grassi speculatori della finanza mondiale?…

Infine: perché dovrei credere a Tim Anderson? In fondo non ho personalmente alcuna possibilità di verificare la fondatezza delle sue analisi, la verità delle sue fonti e delle sue affermazioni… Il mio è un atto di fede!
No, in verità io non “credo”, ma leggo con attenzione vigile e critica. Sono fortemente sostenuto nel prestargli fede, oltre che ascolto, dalla storia imperialista degli USA e della NATO, cioè dei Paesi che la compongono. I militari che manovrano sono a servizio degli interessi privati dei finanziatori dei candidati alla presidenza USA. Le bugie di Bush per scatenare la guerra contro l’Iraq sono non solo un precedente eloquente, ma un anello di una strategia ormai collaudata. Come la Libia (v. pag. 212).
Beppe Pavan

Per chi volesse avere un approccio diretto al testo di Tim Anderson propongo la lettura degli incipit di tutti i capitoli che lo compongono.

UN “MANUALE” PER CAPIRE LE GUERRE IN ATTO IN MEDIO ORIENTE
presentato attraverso la trascrizione dei brani iniziali dei 15 capitoli

Cap 1 – Introduzione: la guerra sporca contro la Siria
Benché tutte le guerre facciano ampio uso di menzogne e inganni, la guerra sporca contro la Siria ha fatto affidamento su un livello di disinformazione di massa mai visto a memoria d’uomo. (…) secondo tale copione, un oftalmologo dai modi garbati di nome Bashar al Assad è divenuto il nuovo cattivo mondiale e, a giudicare dai reportage a senso unico dei media occidentali, l’esercito siriano non fa altro che uccidere civili da oltre quattro anni. Ancora oggi, molti immaginano il conflitto siriano come una “guerra civile”, una “rivolta popolare” o una sorta di scontro confessionale interno. Tali miti rappresentano, sotto molti aspetti, un cospicuo successo per le grandi potenze che hanno condotto una serie di operazioni di regime change – tutte con pretesti fasulli – nella regione mediorientale negli ultimi quindici anni.

Cap 2 – La Siria e il “Nuovo Medio Oriente” di Washington
Dopo le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq e la distruzione della Libia, la Siria doveva essere il prossimo Stato a venire rovesciato. Washington e i suoi alleati regionali progettavano l’operazione da tempo. Dopo il regime change a Damasco gli alleati della Siria, gli Hezbollah, leader della resistenza libanese contro Israele, sarebbero rimasti isolati. La Repubblica Islamica dell’Iran sarebbe rimasto l’unico Paese mediorientale privo di basi militari USA. Dopo l’Iran, Washington avrebbe facilmente controllato l’intera regione, escludendone i possibili rivali come la Russia e la Cina. La Palestina sarebbe stata definitivamente perduta. (…)
L’esercito nazionale siriano ha resistito a un’ondata dopo l’altra di fanatici attacchi islamisti, sostenuti dalla NATO e dalle monarchie del Golfo, e l’appoggio russo e iraniano è rimasto saldo. Ciò che più conta, la Siria ha costruito nuove forme di cooperazione con un Iraq debole ma emergente. Washington agiva da decenni per dividere l’Iran dall’Iraq, perciò il rafforzamento dei legami tra Iran, Iraq, Siria, Libano e Palestina rappresenta una sfida regionale al nuovo “Grande Gioco” dei nostri giorni. Il Medio Oriente non è soltanto un terreno di gioco per le grandi potenze.

Cap 3 – Barili bomba, fonti faziose e propaganda di guerra
La propaganda di guerra richiede spesso l’abbandono dell’uso della ragione e dei principi, e la Guerra Sporca contro la Siria fornisce abbondanti esempi di questa pratica. I notiziari occidentali sulla Siria sono attraversati da un’incessante sequela di racconti di atrocità – “barili bomba”, armi chimiche, uccisioni “su scala industriale”, bambini morti. Tutti questi racconti hanno due cose in comune: dipingono il presidente e l’esercito siriani come mostri massacratori di civili, bambini compresi – e tuttavia, quando se ne esamina l’origine, si scopre che provengono tutti da fonti totalmente faziose. Ci stanno ingannando. (…) Come nelle guerre precedenti, l’obiettivo è demonizzare il nemico per mezzo di ripetute accuse di atrocità, mobilitando così il sostegno popolare per la guerra.

Cap 4 – Daraa 2011: un’altra insurrezione islamista
Due versioni si svilupparono riguardo al conflitto siriano, all’inizio delle violenze armate nel 2011, nella città di Daraa, sul confine meridionale. La prima versione proviene da testimoni indipendenti che si trovavano in Siria, come lo scomparso padre Frans Van der Lugt di Homs. Essi affermano che uomini armati infiltrarono le prime manifestazioni per le riforme politiche allo scopo di aprire il fuoco su poliziotti e civili. La seconda proviene dai gruppi islamisti (i “ribelli”) e dai loro sostenitori occidentali. Essi sostengono che vi furono violenze “indiscriminate” da parte delle forze di sicurezza siriane miranti a reprimere le manifestazioni politiche e che i “ribelli” nacquero dal seno di un movimento laico di riforma politica. (…)
Nel febbraio 2011 ebbero luogo agitazioni popolari in Siria, in parte influenzate dagli eventi egiziani e tunisini. Vi furono manifestazioni contro il governo e a favore del governo, ed emerse un genuino movimento di riforma politica che da anni manifestava contro la corruzione e il monopolio del Partito Ba’ath. (…) All’inizio di marzo alcuni adolescenti furono arrestati a Daraa per aver tracciato graffiti, copiati da quelli nordafricani, che dicevano “il popolo vuole rovesciare il regime”. Fu riferito che erano stati maltrattati dalla polizia locale; il presidente Bashar al Assad intervenne, il governatore locale fu licenziato e gli adolescenti furono rilasciati.
Ma l’insurrezione islamista era ormai in corso, al riparo delle manifestazioni di piazza. (…) In realtà, il movimento per la riforma politica era stato estromesso dalle piazze dai cecchini islamisti salafiti durante i mesi di marzo e aprile.

Cap 5 – Bashar al Assad e la riforma politica
Va da sé che i processi politici interni di uno Stato sovrano riguardano il popolo di quello Stato, e nessun altro. Nondimeno, dato che Washington insiste nel rivendicare il diritto di decidere chi possa o non possa governare un altro Paese, può essere utile fornire qualche informazione generale su Bashar al Assad e sul processo di riforma politica in Siria. Le analisi sensate relative a entrambi i temi sono state ben poche dopo l’insurrezione islamista del 2011. Al contrario, il dibattito del tempo di guerra è degenerato nella caricatura – alimentata dal fervore pro-regime change e da un conflitto sanguinoso – di un “brutale dittatore” assetato di sangue che reprime e massacra ciecamente il suo stesso popolo. (…)
La popolarità del presidente siriano in patria manda a monte i tentativi di dipingerlo come un mostro – in Siria, almeno. (…) e l’esercito è estremamente popolare, perfino all’interno dell’opposizione civile. L’esercito incarna le più forti tradizioni laiche della Siria. (…) Inoltre, la maggior parte dei diversi milioni di siriani trasformati in profughi dal conflitto non hanno la sciato il Paese, ma si sono trasferiti in altre regioni sotto la protezione dell’esercito.

Cap 6 – I jihadisti dell’impero
Un osservatore intelligente potrebbe domandarsi quale sia l’origine di questi tagliatori di teste fanatici, spietati e settari, che sembrano impegnati in una sorta di missione islamica, ma figurano spesso dalla stessa parte delle grandi potenze. La risposta a questa domanda non va ricercata nell’Islam come religione, ma in due fenomeni storici specifici: i wahhabiti dell’Arabia saudita e i più diffusi e ben organizzati Fratelli Musulmani. (…)
Il wahhabismo si fonda su una rete feudale di monarchie del Golfo, guidata dall’Arabia saudita, mentre i Fratelli Musulmani, che nacquero in Egitto, hanno una propria storia di accanita rivalità con il nazionalismo laico. (…) godono di una popolarità limitata nel mondo arabo e musulmano, generalmente tollerante. Ad accentuare la loro debolezza vi è il fatto che sia i wahhabiti sia i Fratelli Musulmani hanno una lunga tradizione di collaborazione con le grandi potenze contro i loro avversari interni. (…)
In questa guerra sporca le potenze straniere non sono state belligeranti diretti, agendo perlopiù come finanziatori, addestratori e fornitori di armi dei loro eserciti islamisti operanti per procura.. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia guidarono inizialmente un’offensiva diplomatica, nel tentativo di isolare il governo siriano e di imporre una successione di gruppi in esilio non eletti da nessuno quali “rappresentanti legittimi” del popolo siriano. Nondimeno, insieme ai loro collaboratori regionali – in particolare la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita – finanziarono e armarono tutti i vari gruppi armati.

Cap 7 – Media embedded, “cani da guardia” embedded
La cooptazione dei mass-media e dei “cani da guardia” dei diritti umani è stata fondamentale per la guerra propagandistica contro la Siria. Di fatto, nel XXI secolo non è possibile condurre una guerra per procura prolungata, dipendente dal sostegno dell’opinione pubblica, senza l’appoggio di un vero e proprio esercito di collaboratori di questo genere. Per questo motivo la dottrina del Pentagono negli ultimi anni si prefigge obiettivi decisamente ambiziosi, quali il “Dominio sull’intero spettro”, che significa predominio informativo, economico e culturale, oltre che militare. (…)
Durante l’invasione dell’Iraq nel 2003 il concetto di “giornalisti embedded” divenne ben noto, con l’“incorporazione” dei giornalisti occidentali fra le truppe d’invasione statunitensi. (…)
Alcune delle ONG liberal più affermate hanno svolto un ruolo cruciale nella campagna di disinformazione contro la Siria. (…) Sfruttando la tecnica propagandistica consolidata della ripetizione all’infinito, (…) Human Rights Watch (…) è divenuto uno dei più aggressivi sostenitori del bombardamento USA della Siria (…).
Anche Amnesty International si è arruolata nella missione di regime change. (…) Amnesty si è trasformata in un consulente di Washington e la istruisce su come dare una pennellata di diritti umani ai suoi interventi illegali.
Avaaz, la cui struttura rimane immersa nell’ombra, condivide con il gruppo Soros e con Res Publica forti legami con organizzazioni sioniste.

Per contro, alcune piccole organizzazioni occidentali si sono impegnate a dare la caccia alle bugie dei media sulla guerra in Siria. L’organizzazione statunitense FAIR… Due organizzazioni britanniche… Media Lens… Off Guardian…

Cap 8 – Il massacro di Houla rivisitato
Dopo che l’esercito siriano ebbe espulso i gruppi dell’Esercito Libero Siriano da Homs, e alla vigilia di una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla Siria, uno spaventoso massacro di oltre 100 civili ebbe luogo nel villaggio di Houla, nella pianura di Taldou poco a nord-ovest di Homs. (…) Ogni qual volta l’esercito siriano attaccava questi gruppi armati, essi attuavano esecuzioni capitali in pubblico, tentando costantemente di accusare l’esercito siriano di condurre attacchi contro la popolazione civile. (…) Il loro movente era punire gli abitanti filo-governativi del villaggio, in particolare le famiglie al-Sayed e Abdulrazzak, per poi alterare la scena del massacro allo scopo di incolpare falsamente il governo dei loro stessi crimini. (…)
Il massacro di Houla (25 maggio 2012) divenne cruciale nei dibattiti sulla “responsabilità di proteggere”, dal momento che fu alla base di un fallito tentativo di autorizzare un intervento ONU per la protezione dei civili, motivato con l’affermazione secondo cui il governo siriano aveva massacrato dei civili. Le prove a sostegno di tale accusa, tuttavia, erano tutt’altro che chiare.
I governi britannico, francese e statunitense incolparono immediatamente il governo siriano. (…) la Commissione d’Inchiesta “non si era nemmeno recata in Siria” e aveva ignorato l’inchiesta siriana. (…) Sotto molti aspetti Houla segnò il fallimento dei tentativi di costruire una qualsiasi “verità ufficiale” certificata dall’ONU riguardo al conflitto in Siria.

Cap 9 – Invenzioni chimiche: l’episodio della Ghouta Orientale
La guerra sporca contro la Siria è stata caratterizzata da ripetuti scandali, spesso costruiti ad arte ai danni del governo siriano per contribuire a creare pretesti per un intervento più pesante. Forse il più famigerato fu l’episodio della Ghouta Orientale dell’agosto 2013, in occasione del quale furono diffuse su Internet fotografie di bambini morti o drogati provenienti da un’area agricola a est di Damasco sotto il controllo degli islamisti, con l’accusa secondo cui il governo siriano aveva utilizzato armi chimiche per assassinare centinaia di innocenti. L’episodio provocò un tale clamore che solo un’iniziativa diplomatica russa riuscì a impedire un intervento diretto da parte degli Stati Uniti. Il governo siriano accettò di eliminare per intero le sue scorte di armi chimiche dichiarando che non erano mai state utilizzate nel conflitto in corso.
In realtà, tutte le prove indipendenti sull’episodio del Ghouta Orientale (comprese quelle raccolte dall’ONU e dagli USA) dimostrano che le accuse rivolte al governo siriano erano false. (…) Alla fine del 2013 un gruppo di avvocati e giornalisti turchi pubblicò un rapporto particolareggiato sui crimini contro i civili in Siria. Particolare attenzione era dedicata alle responsabilità del governo turco, che appoggiava i gruppi “ribelli”. Il rapporto giungeva alla conclusione che “la maggior parte dei crimini” commessi contro civili siriani, compreso l’attacco nella Ghouta Orientale, erano opera delle “forze armate ribelli in Siria”.

Cap 10 – “Responsabilità di proteggere” e doppio gioco
Al volgere del XXI secolo fu elaborata una nuova versione dell’“intervento umanitario”, nota come “responsabilità di proteggere” (responsability to protect o “R2P”). Questa invenzione delle grandi potenze, che si ricollegava alle conseguenze umanitarie attribuite al loro presunto mancato intervento in occasioni precedenti, si trasformò in una poderosa argomentazione morale a favore dell’intervento in Libia nel 2011. Tale intervento, fondato su menzogne, fu disastroso per la popolazione libica. Con la Siria si tentò un percorso analogo, che tuttavia fallì. Russia e Cina, in particolare, non erano più disposte a fare il gioco di Washington. Al di là di come poteva suonare in teoria, in pratica la “R2P” emerse come un nuovo strumento di intervento. Questa dottrina implica gravi rischi dal momento che ha contribuito a fomentare massacri false flag [con falsi pretesti] da parte di gruppi armati in cerca di maggiori aiuti dall’estero. Ha inoltre contribuito a indebolire il sistema internazionale che dagli anni Quaranta si è fondato sui principi di sovranità e non-intervento. (…)
Nel 2014 vi fu un cambiamento nell’argomentazione principale addotta a favore di un intervento occidentale in Siria. Si passò da una logica basata sulla “responsabilità di proteggere” a una ispirata all’“intervento protettivo”, attuato in nome della soppressione del terrorismo a livello globale. Questa argomentazione calpestava la legislazione internazionale, dimostrando un flagrante disprezzo per i diritti degli altri popoli e delle loro nazioni.

Cap 11 – Sanità e sanzioni
Il sistema sanitario siriano è stato duramente colpito dalla guerra e indebolito dalle sanzioni economiche occidentali – e la responsabilità di tutto ciò è stata oggetto di polemiche, come ogni altro aspetto del conflitto.
Nel dicembre del 2013 l’allora ministro siriano della Sanità dottor Sa’ad al Nayef disse a una delegazione australiana di solidarietà in visita nel Paese – di cui facevo parte – che terroristi appoggiati dall’estero avevano recentemente fatto esplodere due camion-bomba all’interno dell’ospedale Al-Kindi di Aleppo, distruggendolo completamente e uccidendo tutto il personale sanitario al suo interno. (…)
Tuttavia, leggendo la versione dei sostenitori dei gruppi armati, si potrebbe avere la sensazione che il governo siriano abbia sistematicamente distrutto il suo stesso sistema sanitario.

Cap 12 – Washington, il terrorismo e l’ISIS: le prove
La notizia dell’abbattimento da parte delle forze irachene di aerei statunitensi e britannici che trasportavano armi per l’ISIS fu accolta in Occidente con sgomento e incredulità. Eppure, in Medio Oriente ben pochi dubitano del fatto che Washington stia giocando una “doppia partita” con i suoi eserciti che agiscono per procura in Siria. Un leader degli Ansar Allah yemeniti afferma: “Ovunque ci siano ingerenze degli Stati Uniti, ci sono al-Qaeda e l’IsIS. Va tutto a loro vantaggio. Tuttavia, alcuni miti fondamentali rimangono importanti, in particolare per l’opinione pubblica occidentale. Per mettere in discussione questi miti occorrono la logica e le prove – le affermazioni non sono sufficienti. (…)
Le prove esposte in questo capitolo sono sufficienti per trarre alcune conclusioni. Primo: Washington ha pianificato una sanguinosa ondata di “cambiamenti di regime” a proprio vantaggio in Medio Oriente, spingendo alleati quali i sauditi a fare uso di forze settarie nell’ambito di un processo di “distruzione creativa”. Secondo: gli Stati Uniti hanno direttamente finanziato e armato una serie di gruppi terroristici cosiddetti “moderati” contro lo Stato sovrano siriano, mentre i loro alleati principali – Arabia Saudita, Qatar, Israele e Turchia – hanno finanziato, armato e assistito con armi e cure mediche qualsiasi gruppo armato anti-siriano, “moderato” o estremista che fosse. Terzo: i “jihadisti” di Jabhat al-Nusra e dell’ISIS sono stati attivamente reclutati in numerosi paesi, il che dimostra che l’ascesa di questi gruppi non è stata dovuta a una semplice reazione anti-occidentale da parte dei “sunniti” della regione. Quarto: la Turchia, membro della NATO, ha avuto il ruolo di “zona di libero transito” per ogni tipo di gruppo terroristico diretto in Siria. Quinto: un numero significativo di alti funzionari iracheni hanno testimoniato riguardo a casi di consegna diretta di armi statunitensi all’ISIS. Sesto: la “guerra” degli Stati Uniti contro l’ISIS – condotta in modo inefficace o, nella migliore delle ipotesi, selettivo – sembra confermare l’opinione irachena e siriana secondo cui tra i due soggetti vi sarebbe una relazione improntata al controllo. Riassumendo, si può concludere che gli Stati Uniti hanno costruito una relazione di comando nei confronti di tutti i gruppo terroristici anti-siriani, compresi al-Nusra e l’ISIS, in modo diretto o per tramite dei loro stretti alleati regionali (…). Washington ha fatto il doppio gioco in Siria w in Iraq, applicando la sua vecchia dottrina di smentire in modo plausibile delle verità conosciute ma scomode, allo scopo di mantenere in piedi, quanto più a lungo possibile, la finzione di una “guerra al terrorismo”.

Cap 13 – L’intervento occidentale e la mentalità coloniale
In tempi di “rivoluzioni colorate” il linguaggio è stato rovesciato. Le banche sono diventate i guardiani dell’ambiente naturale, i fanatici settari sono “attivisti” e gli imperi proteggono il mondo dai grandi crimini, invece di commetterli.
La colonizzazione del linguaggio è all’opera ovunque, tra popolazioni altamente acculturate, ma è particolarmente virulenta all’interno delle culture colonialiste. “L’Occidente” – questa autoproclamata epitome della civiltà avanzata – reinventa attivamente la propria storia, allo scopo di perpetuare la mentalità coloniale.
Autori come Frantz Fanon e Paulo Freire hanno evidenziato come le popolazioni colonizzate subiscano danni psicologici e abbiano bisogno di “decolonizzare” la propria mentalità, per divenire meno deferenti nei confronti della cultura imperiale e affermare con maggior forza i valori delle proprie società. L’altra faccia di questa medaglia è costituita dall’impatto dell’eredità coloniale sulle culture imperiali. Le popolazioni dell’Occidente considerano la propria cultura come centrale, se non universale, e hanno difficoltà a prestare ascolto ad altre culture o a imparare da esse. Per cambiare tutto questo occorre uno sforzo.
Le cricche dei potenti sono ben consapevoli di questo processo e tentano di cooptare le forze critiche all’interno delle loro stesse società, colonizzando i valori e il linguaggio progressista e banalizzando il ruolo delle altre popolazioni. (…) tutto ciò rende molto più facile vendere in Occidente le guerre per procura con presunte finalità missionarie.
Cap 14 – Verso un Medio Oriente indipendente
Il piano di Washington per un Nuovo Medio Oriente si è imbattuto in uno scoglio chiamato Siria. Malgrado gli spargimenti di sangue e la dura pressione economica continuino, la Siria sta avanzando verso una vittoria militare e strategica destinata a trasformare il Medio Oriente. Vi sono chiari segnali del fatto che i piani di Washington – imporre un regime change o far venire meno il funzionamento dello Stato e smembrare il Paese lungo linee di frattura confessionali – sono falliti. Al loro posto assistiamo all’ascesa di un Asse della Resistenza più forte, il cui nucleo è costituito da Iraq, Siria, Palestina e Hezbollah, sostenuti dalla Russia e in procinto di accogliere anche l’Iran. (…)
I siriani – compresa la maggioranza dei musulmani sunniti devoti – rifiutano quella perversa forma di Islam promossa dalle monarchie del Golfo, fatta di decapitazioni, brutalità e settarismo. Questa non è una guerra confessionale o tra sciiti e sunniti, ma una classica guerra imperialista, che si serve di eserciti che agiscono per procura. (…) l’unità e l’indipendenza della regione stanno esigendo un prezzo terribile – ma si stanno realizzando.

Cap 15 – Tenersi informati
La maggior parte dei media occidentali, così come quelli delle monarchie del Golfo (Al Jazeera, Al Arabiya), sono profondamente faziosi e in molti casi si sono resi responsabili di montature a sostegno della guerra di propaganda contro la Siria. Ciò solleva un interrogativo: dove trovare informazioni attendibili o indipendenti? Non vi sono risposte semplici a questa domanda, e il lettore noterà che ho utilizzato un’ampia varietà di fonti.
(Segue un elenco di Media nazionali anti-imperialisti, di Fonti non governative indipendenti e di Analisi critica dei media. Non li possiamo riportare qui, ma – ovviamente – vi invitiamo a leggere il libro).

OGNI VOLTA UNA TAPPA
Riconosciamo che nella vita personale e comunitaria di ciascuno/a di noi è in atto un cammino, che ci è difficile definire se di crescita, di maturazione o che altro, ma certamente di costante ricerca e cambiamento. Era già avviato, magari inconsciamente, quando abbiamo scelto di entrare nella comunità di base, dove le pratiche di autocoscienza, prima nei gruppi donne e poi anche nei gruppi uomini, hanno dato consapevolezza ulteriore alla nostra ricerca di responsabile autonomia.
Questo cammino è in quotidiano sviluppo e ogni avvenimento non ne è che una tappa. Ogni tappa si lega alle precedenti nell’impasto unitario che è il nostro corpo, senziente e pensante, immerso nel contesto emozionale, altrettanto unitario, che è l’insieme dei corpi di donne e uomini che camminano con noi.
Tappe di questo percorso sono anche, ad esempio, testi e letture occasionali che ci sorprendono per il loro legame più o meno evidente con il nostro cammino. Quante volte ci siamo confrontati/e, ad esempio, sul tema del “maestro”, del necessario “riconoscimento di maestri e maestre” per la nostra vita!… A pagina 164 del libro La profezia della curandera
leggiamo:

“(…) ‘Tu sei la mia discepola e io il tuo istruttore’ ribadì.

‘No, tu non sei semplicemente il mio istruttore o il mio educatore: tu sei il mio maestro, la mia guida. Sei un saggio, un grande uomo in abiti umili’ ribattè lei. ‘E io ti stimo e ho fiducia in te’.

‘Non sono un maestro. Un uomo può essere solamente un istruttore o un educatore, ma non può insegnare l’amore. Solo una donna può giungere a essere una maestra perché lei, nel silenzio e con grande pazienza, sa guidare, sa trasmettere le sue conoscenze. Guida con il suo esempio, senza dover ricorrere alle parole. Un maestro non predica, insegna con l’esempio della sua vita. Forse un giorno, quando avrai finalmente incontrato te stessa, anche tu sarai in grado di diventare una maestra e qualsiasi uomo potrebbe essere tuo discepolo’ obiettò lui alzandosi in piedi. Rimasero in silenzio poi, improvvisamente, lui si ritirò”.

bp
Hernàn Huarache Mamani, La profezia della curandera, PIEMME ed., Milano 2008. Il titolo dell’edizione italiana non traduce l’originale “Kantu. El poder de le mujer”. E’ un peccato…

 

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