NUMERO 1 – 2016

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n° 1 – 2016 ISSN 1720-4577

 

 

 

Carissimi Sarri, Mancini e Gramellini,
vi scrivo per dirvi che vi sento vicini e per ringraziarvi perché state dando a voi, a me e alla società italiana un’occasione preziosa per riflettere e fare un passo avanti nel cambiamento in meglio.

Vi ringrazio, innanzitutto, per aver detto con chiarezza il vostro pensiero, in TV e su La Stampa del 21 gennaio. Spero che i tifosi, i telespettatori e i lettori del quotidiano non si limitino a schierarsi, ma riflettano insieme a noi.

Anch’io ero davanti al televisore quella sera e ho apprezzato subito che Mancini raccontasse l’accaduto chiamando le cose con il loro nome e nominando le parole di Sarri che l’avevano turbato e offeso. Anche Sarri ha detto e ripetuto quello che evidentemente pensava davvero, che, cioè, il mondo del calcio è un mondo a sé e quello che succede lì dentro di lì non dovrebbe uscire… Ha chiesto scusa per le parole offensive, ma ha pervicacemente difeso quella “tradizione ormai consolidata” che né Mancini né alcun altro dovrebbe interrompere… Chiamiamola “omertà”.

Invece si progredisce, in qualunque ambito, secondo me, solo con il coraggio di praticare rotture. Il mondo del calcio è luogo di machismo esibito e dato per scontato, ma non credo che chi si comporta da macho violento allo stadio e nei suoi dintorni sia poi capace di tenerezza e rispetto in tutto il resto della sua quotidianità relazionale. Per questo non serve chiedere scusa ogni volta, e ogni volta ripetere comportamenti scorretti. Serve cambiamento vero; anche in chiave educativa.

Perché ciò possa avvenire l’esperienza mi insegna che ci vuole capacità di ascoltarsi a vicenda, con attenzione vera, e di non giudicare le persone con cui siamo in conflitto, pretendendo, ad esempio, l’esclusione definitiva di Sarri dal mondo del calcio. L’ascolto aiuta la riflessione, il giudizio la inibisce; è conveniente, invece, continuare a riflettere fino ad acquisire consapevolezza su ciò che ciascuno deve cambiare di sé. Perché ognuno può operare cambiamenti solo su di sé, continuando a stare in relazione di scambio con gli altri.

Mi permetto di dirvi queste cose perché, praticandole da molti anni in gruppo con altri uomini, posso testimoniarvi l’efficacia e la convenienza di un simile cambiamento nella mia vita e nelle mie relazioni. E desidero che avvenga lo stesso nella vita vostra e in quella di ciascun uomo.

Ve lo auguro e vi saluto con affetto
Beppe Pavan

 

IL 16 GENNAIO TORNIAMO IN PIAZZA
CONTRO LA GUERRA INFINITA

Nella notte tra il 16 e 17 gennaio del 1991 le prime bombe e i primi missili della NATO e degli USA cadevano sull’Iraq. Era la prima guerra del Golfo, che avrebbe dato il via ad una guerra infinita, che come un fiume carsico a volte è parsa inabissarsi, soprattutto nell’attenzione delle varie opinioni pubbliche, per poi riemergere all’improvviso più ampia e devastante di prima.
Due antefatti avevano preparato l’intervento militare del 1991. Negli anni ’80 Il conflitto in Afghanistan aveva schiantato l’Unione Sovietica, mentre gli USA avevano armato il fondamentalismo islamico dei talebani e di Bin Laden. Contemporaneamente l’Iraq di Saddam Hussein, anche in questo caso con il sostegno USA, aveva intrapreso una terribile guerra contro la rivoluzione sciita in Iran. Come premio per i costi di questa impresa il dittatore iracheno aveva poi pensato di occupare il Kuwait, contando sul silenzio assenso del suo protettore. Che invece doveva tenere conto del suo primo alleato nella regione, l’Arabia Saudita, di cui il piccolo stato petrolifero era una dependance, e che quindi non avrebbe potuto accettare il fatto compiuto.
Ronald Reagan, il presidente più reazionario di tutto il novecento statunitense, l’interprete della svolta liberista e antisindacale nelle politiche economiche, fu responsabile della decisione di sostenere i talebani e Saddam Hussein. Reagan fu l’apprendista stregone che suscitò le forze che poi gli USA furono costretti a combattere, ma questo non vuol dire che la guerra iniziata nel 1991 sia stata in pura continuità con quelle precedenti. Le guerre alimentate da Reagan erano rivolte contro l’Unione Sovietica; in un recente talk show Edward Luttwak ha affermato che sostenere i talebani fu comunque un buon affare, perché servì a far crollare il comunismo. Ma nel 1991 la Germania era appena riunificata e l’Urss stava crollando: gli USA non avevano avversari. Una politica di pace dei vincitori avrebbe voluto che, dopo il crollo dell’avversario, la NATO fosse sciolta e il disarmo proclamato. Invece si fece l’esatto contrario. La NATO fu rafforzata come strumento di potere mondiale e le spese militari incrementate. Così la guerra che iniziava nel 1991 affondava le sue radici nel passato, ma era collocata in una dimensione nuova. Essa era un conflitto del Medio oriente che in realtà coinvolgeva tutto il mondo, era un conflitto mondiale localizzato. L’unica grande potenza rimasta costruiva una coalizione mondiale che riduceva l’ONU a misera sede di ratifica delle decisioni già prese. E proprio per affermare il proprio ruolo egemone sul nuovo ordine nel pianeta, gli USA dovevano dare a Saddam una lezione che imparassero tutti. Allora si inventò il mito della grande minaccia incombente, gli intellettuali e i mass media furono messi in campo per spiegare che un nuovo Hitler era comparso e che non si poteva cedere a lui come fecero invece le potenze occidentali di fronte al Führer nel 1938. La guerra diventò ordinatrice, democratica, umanitaria, contro il terrorismo. E questa follia ipocrita ci ha accompagnato fino ad ora. Le parole di guerra di allora sono le stesse di oggi, a qualche telegiornale potrebbe essere cambiata la data di 25 anni e sarebbe difficile cogliere la differenza.
Il 1991 fu percorso da una vasta mobilitazione pacifista, che durò e si rafforzò per tutto il decennio, al punto che alle soglie del 2000 il New York Times definì il movimento contro la guerra la seconda potenza mondiale.
Nel gennaio 1991 in Italia vi furono manifestazioni e scioperi, quello dei ferrovieri indetto dal COMU e quelli di molte fabbriche promossi dalle strutture della Cgil. Il PDS, erede della maggioranza del PCI favorevole alla svolta di Occhetto, approvò la guerra, ma Ingrao e la sinistra si opposero pubblicamente. In chi si opponeva alla guerra c’era l’angoscia di essere precipitati in un nuovo male, sentimento acuito dal fatto che per la prima volta dal 1945 l’Italia partecipava ad azioni militari offensive. L’articolo 11 della Costituzione veniva esplicitamente violato per ragioni di ordine superiore e da allora sarebbe stato sempre ignorato da tutti i presidenti e da tutti i governi della repubblica.
Dal 1991 i sempre più estesi teatri di guerra in Asia Africa Europa hanno prodotto milioni di morti, soprattutto civili, ma il meccanismo originario del conflitto non è mai stato messo in discussione. L’Occidente si è assunto il compito di fare la guerra per portare ordine nel mondo. È il fardello dell’uomo bianco, scriveva Kipling alla fine dell’800, per difendere la politica coloniale europea.
Il terrorismo ha tratto sempre più alimento dalla guerra, ne è un prodotto diretto. Non è solo un giudizio, è un fatto. Alla fine di ogni azione di guerra dell’Occidente, in Iraq come in Afghanistan , in Kosovo come in Libia come in Siria, i terroristi veri o potenziali erano molti di più che all’inizio. Dopo le guerre degli anni ‘90 c’è stato l’11 settembre, dopo quelle di quest’ultimo decennio le stragi di Madrid, Londra, Parigi, Istanbul. Al fallimento della esportazione della democrazia ha corrisposto la crescente importazione delle stragi terroristiche. Che poi in realtà non vengono solo dall’esterno, perché spesso i loro autori sono cittadini dei paesi colpiti.
La reazione del presidente Hollande e della classe dirigente francese alle ultime stragi è stata la dimostrazione della decadenza, dell’ottusità e anche della malafede di chi non è capace di concepire altro che il rilancio e l’intensificazione della guerra. Magari accompagnandolo a misure liberticide nella vita interna del paese. Nello stesso tempo la NATO ha accelerato la sua marcia verso Oriente in funzione anti-russa, aprendo un nuovo focolaio di guerra in Ucraina. Così accanto alla guerra ordinatrice l’Occidente ha dovuto riscoprire, in forme diverse, una sua vecchia conoscenza: il conflitto tra le grandi potenze. A loro volta le potenze regionali, Arabia Saudita, Iran, Turchia, Egitto, hanno cominciato ad agire in proprio.
Insomma dopo 25 anni assistiamo al totale fallimento delle ragioni politiche ufficiali che portarono ai bombardamenti del 1991. Norberto Bobbio, che, sbagliando profondamente, fu tra coloro che diedero una veste democratica alla prima guerra d’Iraq, mentre giustificava quella decisione si era però lasciato una piccola riserva, affermando che bisognava comunque giudicare la guerra dalla sua efficacia. Da questo punto di vista il risultato è catastrofico.
Purtroppo il New York Times sbagliava giudizio, il movimento per la pace non aveva la forza che gli era stata attribuita e alla fine si è ridotto a piccole minoranze. Mentre le opinioni pubbliche sono sempre più frastornate ed impaurite tra attacchi terroristici e campagne xenofobe. Manca quindi un pensiero critico diffuso che faccia i conti con 25 anni di guerre sporche e sbagliate e che pretenda un bilancio conclusivo. Così la guerra diventa ancora più pericolosa perché è oramai senza obiettivi concreti dichiarati, se non quello di continuare su se stessa. Così la guerra diventa un eterno presente senza futuro, allo stesso modo delle politiche di austerità. Anch’esse, infatti, dopo decenni di fallimenti han rinunciato a promettere un futuro diverso e oramai si presentano semplicemente come unica brutale realtà possibile. Dobbiamo allora rassegnarci a cento anni di austerità e guerra, come nel Medio Evo tra Francia e Inghilterra?
Di fronte a questa inerzia da incubo onore ai movimenti e alle forze sindacali e politiche controcorrente, che il 16 gennaio manifestano a Roma e a Milano per ricordare che la prima cosa da fare con una guerra che dura da 25 anni è fermarla.
Giorgio Cremaschi

 

UN INCONTRO CHE RICHIEDE DI PROSEGUIRE UN CAMMINO, PER VIE STRETTE E DIFFICILI.

Una serata piacevole e intensa, ieri sera 29 Dicembre 2015, per le riflessioni dell’ospite Augusto Cavadi, che in uscita, per l’ora tarda, ho voluto salutare proponendogli di… proseguire assieme quel cammino a Palermo con un caffè… molto lungo e riprendere la riflessione aperta da una domanda decisiva a lui posta dal nostro Beppe.
La domanda di Beppe, che riprendo come l’ho colta io, richiedeva una riflessione sul tema di fondo del non giudicare, che nel nostro gruppo Uomini in Cammino informa e caratterizza gli scambi interni, ma incide sempre più anche nelle relazioni quotidiane con ogni altro gruppo e persone. Chiedeva Beppe ad Augusto di approfondire quanto scrive nel suo libro Mosaici di saggezze [v. su questo foglio a pag.] sul ruolo della filosofia e della ragione che può essere capace di giudicare fatti, eventi e comportamenti.
Avrei fatto la stessa domanda e credo che la risposta di Augusto sia stata ampia, ma ci obbliga a nuove riflessioni. Provo a scrivere le mie considerazioni, che mi correvano in mente ieri sera ma complesse da esprimere in una nuova domanda. Spero, scrivendole, di renderle chiare, anche se so bene di fare sempre molti riferimenti che rischiano di confondere.

Permettetemi di farle precedere dagli auguri per il 2016 che ho fatto ad un alto membro del Governo Italiano, con cui ho solo relazioni per programmi ipotetici di cambiamenti in Sicilia (si tratta di miei sogni senili). Volevo fare un tentativo di stimolare una riflessione nei luoghi alti della politica, utilizzando alcune riflessioni di Edgar Morin, che entrambi, e credo lo stesso Augusto, abbiamo tra i nostri riferimenti culturali. Ecco le parole inviate e tratte dal libro “Il pericolo delle idee”: “… Uno dei mali della nostra civiltà attuale é che tutto é separato… Nell’impresa esiste una specializzazione talora necessaria, ma i livelli di specializzazione non comunicano tra loro. La nostra epoca viene definita “l’era della comunicazione”, ma non si comunica assolutamente da un settore all’altro, da un gruppo all’altro… Ho una parola d’ordine: collegare, collegare, collegare! Collegare le conoscenze, collegare gli esseri umani, collegare i membri di una stessa società, collegare le società le une alle altre. La mondializzazione non collega, omogeneizza, separa sempre di più… Di fatto, da tutti i mali scaturiti dall’eccesso di individualismo, dalla settorializzazione, dalla meccanizzazione, dalla burocratizzazione, deriviamo un mondo di dispersione e di separazione” (pagg.156-157).
Tutti i mali Augusto li ha citati anche ieri sera, e credo sarebbe d’accordo con le domande successive che si facevano Edgar Morin e Tariq Ramadan, ancora in quel libro, che registra loro lunghissime riflessioni su tutti i mali e temi di fondo, culturali e sociali dell’oggi, dichiarandosi però il loro limite: l’essere solo seminatori di idee che sperano che germoglino in terreni fertili.
Ci prova anche Papa Francesco a seminare idee e condivido le riflessioni sui limiti dell’agire del Papa fatte da Augusto, in risposta alla domanda di un amico presente. Penso anch’io che sia il massimo che il Papa possa dire e fare nel suo contesto ecclesiale, e come seminatore nel più ampio contesto globalizzato, che lui riesce a raggiungere molto bene. Certo mi piacerebbe che dicesse la verità (che magari egli pensa) sul “non senso” dell’infallibilità papale, ma mi frena subito il pensare ai miei limiti, nel mio agire nel contesto in cui mi muovo.
Mi frena perché condivido pienamente l’interrogativo posto da Beppe: in sintesi, il riflettere meglio sulla nostra capacità di giudicare fatti, eventi e comportamenti. Io non ne sono più tanto convinto, forse perché in qualche modo è rimasto inciso nella mia mente sin da bambino quell’evento in cui Gesù disse ai presenti, le cui idee e ragioni li portava ad essere convinti di trovarsi di fronte un comportamento illecito: “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.
Non ci è difficile giudicare idee, fatti, eventi e comportamenti delle persone del mondo politico e sociale citate ieri sera, ma è molto più difficile relazionarci con loro, distinguendo persone (da non giudicare) dalle loro idee e comportamenti che è nostro dovere far cambiare, credo dicesse Augusto. E non potevo non pensare ai miei ed altrui comportamenti e se siano tali da stimolare cambiamenti di idee e comportamenti di quel prossimo non amico, ma nemico. Penso che devo prima far molto io stesso per essere convincente.
Un esempio dalla realtà appena capitatami stamattina. Mi telefona il ViceSindaco di Gela per spiegarmi che la crisi odierna all’interno del loro Comune, voluta dal loro stesso Movimento 5 Stelle, è motivata, secondo il Sindaco, dai comportamenti dei 3 assessori, ieri licenziati perché non curavano gli interessi dei cittadini sui temi ambientali della città. Anzi criticavano solo e continuamente i comportamenti del Sindaco e Vicesindaco, che cercavano invece di trovare intese, dicono i licenziati, con la “vecchia politica” (ovvero con l’ENI) per tentare di risolvere il problema della disoccupazione giovanile del territorio, anziché investire il Movimento.
Due ragioni, due filosofie sullo sviluppo di un Comune, ed intanto vengono… scagliate le prime pietre tra loro. E’ solo un micro esempio di quanto, su più grandi e rilevanti temi, capitano cose analoghe nei partiti, nelle istituzioni, in Italia, in Europa, nel mondo, guerre comprese, e sempre per ragioni (interessi) divergenti e contrapposti.
Ma c’é invece chi sembra stare bene, raccogliere consenso, e domina il nostro vivere. E’ una piccola comunità di “Decisori” che sono stati capaci di creare una lobby d’affari sempre più potente. Come giudicare i loro fatti, eventi e comportamenti? Potrebbe essere immediato e facile, no?
Augusto citava, se ho colto bene, tra i tanti, proprio loro: i Decisori nel mondo della finanza (ritengo che ne facciano parte anche i vertici della mafia) che gestiscono i super citati mercati finanziari, capaci di generare molto concretamente i cambiamenti politici e sociali di paesi e nazioni e decidere sulla loro sopravvivenza economica.
E se scoprissimo che potremmo essere anche noi, pur inconsapevoli, ad alimentare le loro finanze? O, meglio, se scopriamo che sono le nostre banche, che gestiscono i pochi soldi che noi versiamo nelle loro casse, ad essere i loro complici diretti, e noi indiretti, investendo la maggior parte dei nostri soldi versati, facendoli viaggiare proprio verso quei mercati finanziari… Obiettivo per loro é generare altri soldi virtuali per le banche, ma reali per i Decisori, anche se ogni tanto si generano bolle e crisi finanziarie con effetti devastanti in basso, non certo nella loro comunità.
Come giudicare quelle idee e quelle persone per le ricadute indotte nella vita di ciascuno di noi, se scopriamo l’interdipendenza tra tutti noi e loro? E se aggiungessimo la consapevolezza che noi in basso non siamo capaci di gestire quel poco o tanto che abbiamo o risparmiano e lo depositiamo in banca, sentendoci più sicuri?
Augusto ha provato a farci riflettere sulla nostra filosofia esistenziale ovvero sulle nostre chiusure. Efficace la riflessione sull’appartamento e la casa come chiusura e limite di noi tutti, anziché ritrovare più sicurezza nell’essere comunità.
Ieri sera lodava la comunità ed il Gruppo Uomini da cui trarre idee, fatti, eventi e comportamenti incoraggianti. Come non essere lieti ed incoraggiati da quel riconoscimento, ma… quella letizia potrebbe essere un nuovo e diverso nostro limite?
Un esempio personale. Con Ornella stiamo forse uscendo da un tunnel tortuoso durato oltre 10 anni e forse nel 2016 riusciremo a creare una Casa Famiglia che salverà Casa Gaia e noi stessi, assieme a nuovi amici con molte più difficoltà delle nostre, perché speriamo di star meglio tutti vivendo in una micro comunità che metterà assieme le nostre piccole cose.
L’ipotesi in costruzione ci ha reso lieti, e quindi rispunta quella domanda interna: non potrebbe essere ancora un altro nostro limite nel sentirci più sicuri? Se poi pensiamo alla più grande casa comune che continua a camminare con idee, fatti, eventi e comportamenti che stampa, TV ed internet ci comunicano a loro modo, non avvertiamo l’insufficienza del nostro permanere ancora come “atomi” che non si combinano e restare, come diceva Morin, ancora viventi, ma in un mondo di dispersione e di separazione?.
Un cammino ancora tutto da fare nel 2016 e tanti altri anni ancora, sperando di non incappare nell’ultimo “ciclo di vita” del genere umano nella Terra. Perché, malgrado ogni persona abbia un potenziale intellettivo superiore al più grande computer del mondo, questo non gli ha ancora permesso di collegare, collegare, collegare!

…allora auguriamoci un buon cammino, almeno per provarci a collegare.

Giovanni Papa

MASCHILE PLURALE COSA VUOL ESSERE?
UN’ASSOCIAZIONE? UN MOVIMENTO?
VUOL ESSERE UNA RELAZIONE.
Si abbracciano, si baciano anche senza conoscersi. Poi si siedono a chiudere un cerchio o meglio un’ellisse di sguardi che vogliono riconoscersi, ciascuno col carico del viaggio e l’incertezza di quel che verrà, cercando di adattarsi al sedile e alle vibrazioni del luogo che accoglie. La stanza è incurante del mondo attorno a sé, densa solo della sua energia e delle sue storie.
Si parla ed è un dire fraterno, un sorriso che sa di apertura e ospitalità. Forse perché sono in pochi, forse perché si sentono legati da un pensiero comune, da una speranza che porte possano aprirsi e restare aperte. E il tempo scorre, le parole si stendono prima contratte e poi più lunghe, come onde al largo. E’ il mare aperto dei pensieri che accoglie la barca degli uomini plurali, ciascuno col suo remo che affonda sollevando spruzzi diversi. In taluni il gesto è breve e secco, e il remo si solleva dall’acqua quasi asciutto, in altri l’immersione è più lenta e vibrante, quasi a raccogliere energia nel mordere il bagnato. Il mare aperto è necessario, solo al largo del riconoscibile il blu è più intenso, profondo.
Gli uomini portano impressi addosso i loro segni distintivi, tanto che la pelle di ciascun viso sembra impregnata dell’humus della propria terra che traccia il contorno delle rughe e delle voci. La Campania dà colore al Piemonte, la Brianza riconosce il Lazio, la Sicilia rimane Sicilia anche col rigore sabaudo e la Puglia rafforza il sapore già forte dell’Emilia. Gli uomini hanno nel sorriso le loro radici.
E’ forte la sensazione che ognuno abbia il desiderio di attingere alla ricchezza dell’altro di cui si sente carente o, almeno, dissetarsene e che, dopo il viaggio nel mare del desiderio comune di esserci, rimanga magari la sete ma senza l’arsura. E quel mare è il desiderio di partecipare per dire che la forza maschile è forza buona e non di violenza, è forza di combattere la violenza e di farlo insieme alla forza del femminile.
Infine il saluto, lasciando nella stanza che li ha accolti l’abbraccio impalpabile della loro energia.
La relazione è un equipaggio che, seduto ai banchi dei remi e senza catene, spinge con ritmo di un coro la nave verso una meta condivisa.

Giancarlo Viganò – uno dei quattro uomini “nuovi” (per me) che ho conosciuto all’incontro
di Maschile Plurale a Bologna il 30 e 31 gennaio scorso (Beppe)

 

PORTERÒ LA MIA CINA CON ME
di Caterina Pavan (http://scribiliante.blogspot.it/)
« Quando tornerò, nonna? »
« Oh, piccola, te l’ho detto ieri… »
« Ma io voglio tornare presto! »
« Tornerai quando sarai un grillo che conosce il suo canto. »
« Allora non devo nemmeno partire. Ascolta: griii griii griii! »
« Lusha… »
« Non chiamarmi Lusha, io sono il tuo grillo! Griii griii. »
« Va bene, grillo, ora dormi. Domani ci sarà molto da fare. »
La nonna esce dalla camera in punta di piedi per non svegliare gli altri nipoti, che dormono già.
Lusha chiude gli occhi ma non riesce a stare ferma. Domani sarà l’ultimo giorno a Fujian, l’ultimo a casa dei nonni, l’ultimo in Cina. Domani tornerà in Italia con la sua famiglia, arrivata la settimana precedente a prenderla.
Lusha è nata a Napoli, come suo fratello maggiore. I suoi genitori, a quel tempo, lavoravano in una fabbrica di abbigliamento insieme a decine di connazionali. In Cina non c’è lavoro per tutti, così bisogna arrangiarsi altrove.
Qualche anno dopo la sua nascita si sono trasferiti a Torino, ma poco dopo Lusha è stata mandata in Cina. Non aveva ancora sette anni. Sapeva che quasi tutti i bambini cinesi che vivono all’estero vengono mandati a trascorrere un lungo periodo in patria, per imparare bene la lingua e conoscere la cultura delle proprie origini. Così è stato per Jingjian, suo fratello, che oggi ha diciassette anni, e così sarà per la sorellina che ha appena conosciuto, Lu Xin, nata a Torino poco più di due anni prima.
Lusha ha vissuto senza i genitori per tre anni e ormai ci ha fatto l’abitudine. Dai nonni si sente a casa. Ma domani? Si gira e si rigira sotto la coperta e stringe i pugni.
La sera prima la mamma le ha detto che bisogna tornare presto presto a Torino perché papà deve curarsi, il dottore italiano lo vuole ricoverare con urgenza. E Jingjian deve cominciare la terza superiore. E lei deve riprendere il lavoro. E le sue figlie devono andare a scuola.
L’ombra della valigia accanto alla porta la agita. Se solo potesse metterci dentro tutta la campagna di Fujian, gli alberi delle foreste, ogni goccia del fiume Minjiang, il vitello alla piastra della nonna. E anche la nonna e il nonno.
La tosse di papà dalla stanza accanto interrompe i suoi pensieri notturni. Sta male davvero, sembra un drago con delle pietre in gola. Lusha scivola in corridoio e sente la mamma che piange e lui che la consola con un filo di voce. La bambina torna in camera e affonda il volto nel cuscino.
Quando fuori dalla finestra scompare il buio e il cielo si fa grigio in attesa del sole, Lusha si alza, afferra lo zainetto da viaggio, si infila le scarpe ed esce di casa passando dalla finestra della camera. Attraversa il terrazzino e scende la piccola scala di pietra in punta di piedi, per non svegliare il cane della vicina.
Un passo dopo l’altro si allontana dalla casa dei nonni. Arriva al fiume quando il cielo comincia a colorarsi di azzurro. Si siede sulla sua pietra preferita e lancia rametti controcorrente seguendone la traiettoria in volo e in acqua con lo sguardo. Quando perde di vista l’ultimo bastoncino si sente pronta. Si volta e si avvia verso la periferia della città, verso la sua amata foresta.

Quel mattino, nonostante l’imminente partenza, a casa dei nonni si svegliano tutti senza fretta. Nessuno si accorge dell’assenza di Lusha fino a un paio d’ore prima di pranzo. La mamma pensava fosse andata dalla vicina a giocare col cane, il papà che fosse a spasso col fratello a cercare qualche souvenir per gli amici, Jingjian credeva che fosse con la nonna, uscita presto per andare al mercato.
«Vado a cercarla» dice il nonno.
Jingjian e i genitori passeggiano nervosi fra le stanze e la cucina. Mentre la mamma finisce di riempire le valigie il papà telefona alla maestra e ad alcune compagne di scuola. Nessuno ha visto Lusha, quel giorno.
Quando la tavola è già apparecchiata e le valigie sono ammucchiate nel corridoio, il nonno torna a casa. Dietro di lui sbuca Lusha reggendo lo zainetto. Ha le scarpe sporche di fango, è spettinata, ha un ginocchio e una mano graffiati.
Fioccano domande e rimproveri: « Lusha, insomma! » « Dove sei stata? » « Ci hai fatti preoccupare! »
« Era vicina alla scuola, stava venendo qui », borbotta il nonno.
« Non volevo scappare, se è questo che pensate. Dovevo solo fare una cosa prima di partire », sussurra lei con gli occhi bassi.
« L’importante è che sia tornata in tempo, non credete? », dice la nonna.
Lusha sorride e annusa l’aria: « Ho fame. C’è un profumino di vitello alla piastra! »
La nonna le fa l’occhiolino e con un gesto invita tutti a sedersi a tavola.

Il volo sembra non finire mai, dura molto di più del suo pianto d’addio.
Lusha è seduta accanto al finestrino e guarda il cielo. Di fianco a lei suo fratello legge una rivista e più in là la sorellina scarabocchia su un foglio con alcuni pennarelli.
« Jingjian, ricordami una parola facile in italiano », chiede Lusha.
« Ciao »
« Cos’è? »
« Significa ni hao. »
« Si assomigliano… »
Sorride. Forse non sarà poi così difficile riabituarsi.
« Lu Xin, tocca a te, insegnami la parola italiana che preferisci. »
« Caramelle! »
A Lusha scappa una risatina. Se la ricorda, quella parola. Sarà una delle prime che userà quando arriverà a Torino.
Sta per addormentarsi quando Jingjian le domanda sottovoce perché sia scappata di casa quella mattina.
« Ancora? Non sono scappata. Ho fatto una cosa », replica lei.
Lui non sembra convinto, allora Lusha aggiunge: « Te la mostro, se vuoi ». Estrae dallo zainetto da viaggio un quaderno sformato con i fogli pieni di piccoli reperti attaccati col nastro adesivo, tra cui ritagli di giornale, fiori e legnetti. « Ho raccolto i sassi del fiume, le foglie dell’albero degli scoiattoli, le bacche del nascondiglio segreto… ». Una foto ingiallita dei nonni occupa la prima pagina. «Porto a Torino la mia Cina, così la mostrerò a tutti i miei compagni di scuola».
Jingjian resta qualche secondo a bocca aperta, poi esclama: « È bellissimo! »
Ma Lusha non lo sente, si è finalmente addormentata, con la sua Cina fra le mani.

 

Lusha è nata a Napoli. Quando aveva circa sette anni è tornata in Cina dai nonni. Oggi Lusha ha undici anni e vive a Torino con la mamma, il fratello maggiore e la sorellina.
COME VIVONO LE DONNE

Sarebbe importante che i “fatti di Colonia” servissero da cassa di risonanza per un sollevarsi di voci femminili, ma anche maschili, a ribadire l’urgenza di rivedere le basi su cui si fonda il rapporto maschile/femminile.
Giunta alla soglia dei sessant’anni posso incominciare a tirare un po’ le fila di quel che ho fatto e non ho fatto nella vita e, inevitabilmente, i comportamenti condizionati/limitati dall’essere femmina in una società determinata dai maschi saltano all’occhio.
Non solo, quello che noi donne abbiamo interiorizzato – purtroppo come normale – è quella paura che ci fa percorrere la strada più lunga anziché quella più breve ma poco frequentata, che ci fa prendere il taxi la notte anziché la metropolitana, che, in buona sostanza, limita la nostra libertà di movimento come tante altre libertà. Credo che a tutte noi – e, se non a tutte, quasi -, anche se abbiamo avuto la fortuna di non subire violenze pesanti, nell’adolescenza non sono mancati esibizionisti o uomini che approfittavano della ressa in autobus per allungare le mani e succede che a quell’età (ma non solo) ci si vergogni, si subisca e non si racconti mai niente, nemmeno a casa. Si interiorizza la paura e si impara che “gli uomini sono anche così” e nessuno lo può impedire. Come fosse nell’ordine delle cose.
Dico in estrema sintesi che questo è proprio l’ordine delle cose che non può più proseguire, ma, affinché questo avvenga, è necessaria una trasformazione culturale, alla quale, io credo, dobbiamo partecipare – da subito – tutte e tutti, ciascuno con le sue possibilità. La gravità della crisi che stiamo attraversando, a mio avviso, è economica come ultima conseguenza di una crisi strutturale le cui radici si fondano sulle modalità di rapporto, collaborazione e scambio tra donne e uomini. La condizione attuale delle donne in paesi come Iran e Afghanistan ci può aiutare a vedere come si fa presto a precipitare indietro.

Silvia Papi (Lettera a Il Manifesto – 15.1.16)

Ogni volta si rinnovano gli inviti “per un sollevarsi di voci femminili, ma anche maschili”… A me sembra che ogni volta si alzino voci, non solo di donne, ma anche di uomini, per protestare contro le prepotenze e per invocare la revisione delle “basi su cui si fonda il rapporto maschile/femminile”. Purtroppo poi si passa ad altro, da parte di troppi; e si resta in pochi a camminare sui sentieri impervi di quella revisione.
Credo che nessuno/a si aspetti interventi incisivi da parte dei governi nazionali o dell’ONU… Siamo tutti/e consapevoli che a stare nelle relazioni con rispetto reciproco si impara giorno dopo giorno nella quotidianità “dal basso” delle relazioni “intime”. Da uomo mi sento di dire che:

Il cammino di trasformazione di una maschilità misogina e prepotente è più facile e coerente se avviene in compagnia: in gruppi, maschili o misti, animati dal desiderio di trovare la felicità e il benessere – lo “star bene”.

La nascita, negli ultimi mesi, di cinque altri gruppi di autocoscienza maschile (a Palermo, a Viterbo, a Trento, a Roma e a Pinerolo) è un meraviglioso indubbio segno di speranza; ma i numeri sono ancora troppo piccoli: pochi gruppi, pochi uomini coinvolti…

Un’accelerazione nella nascita di gruppi sarebbe possibile se ogni uomo dei gruppi “storici” più consolidati non si limitasse a partecipare con assiduità al proprio gruppo, ma prendesse l’iniziativa di provare a dar vita a un altro gruppo nel proprio paese o nel proprio quartiere, invitando amici e compagni.

So bene che non tutti se la sentono di prendere l’iniziativa, ma io continuo a proporlo perché condivido con convinzione “l’urgenza” della revisione di cui parla Silvia Papi nella lettera: credo che nei singoli gruppi e in Maschile Plurale di questo dobbiamo anche parlare, per vivere fino in fondo la nostra consapevolezza e la nostra corresponsabilità.

Un altro sentiero da percorrere è quello che attraversa le scuole: le iniziative come quella nazionale di “Educare alle differenze” o quella pinerolese di “Mi fido di te” ci aiutano a riflettere sul ruolo decisivo che può giocare la scuola nella formazione di adulti e adulte consapevoli e reciprocamente rispettosi/e di ogni differenza. A Pinerolo ci stiamo provando: e dal basso, insieme a moltissime altre persone, associazioni, gruppi, che operano dovunque in Italia, cercheremo di arrivare a programmi formativi del personale scolastico orientati non solo alle specifiche competenze nelle singole “materie”, ma anche e soprattutto a quella competenza universale “che si impara” – e quindi si può trasmettere, con l’esempio e con la parola – e che è (come l’avevo appresa anni fa da Marco Deriu) “a stare nelle relazioni con cura e rispetto”.

Su questa strada sono convinto che si snodi anche il futuro delle piccole comunità di base italiane, di matrice “cristiana”, preoccupate di scomparire per mancanza di ricambi generazionali. Io credo che la “conversione”, a cui ci sentiamo chiamati/e dal Vangelo, sia una pratica sessuata come tutte: imparare a vivere “con amore” non vuol dire nulla di più e di diverso che stare “con cura e rispetto” in tutte le relazioni con gli esseri umani e con tutte le altre creature. Su questa strada le comunità di base sono tantissime e in crescita, anche se non si definiscono cristiane. Questa è una bella notizia. E una bella compagnia!

E’ importante anche prendere la parola pubblicamente, con coraggio e altrettanta cura, per seminare consapevolezza e inviti. Qui trova posto, a mio avviso, anche la pratica della “mediazione”: non solo tra uomini che già sono in cammino e altri che potrebbero/vorrebbero incamminarsi; ma anche tra chi scrive e dice cose non accessibili a tutti e chi non vi accederebbe per limiti personali o di formazione scolastica…

Infine – mi riferisco solo a questo elenco improvvisato – ci sono le meritevoli iniziative istituzionali. Ne cito uno per tutti: il disegno di legge-quadro regionale che è in discussione in Piemonte e che, come quasi sempre, predispone interventi e risorse per l’urgenza primaria di assicurare sostegno alle donne e ai bambini vittime di violenza maschile. Perché nelle Istituzioni non si affronta mai la “questione maschile”? Forse perché amministratori e consiglieri, parlamentari e governanti, sono in massima parte uomini? E si sentirebbero chiamati in causa? Io spero che sia così davvero, che abbiano davvero questa consapevolezza, ancorché confusa, perché prima o poi arriverà in quei palazzi qualcuno con sufficiente coraggio per porre la questione e, come sempre accade, qualcun altro ascolterà e aderirà alla proposta di “riconoscersi uomini” che governano, consapevoli della propria parzialità e di dover partire da sé per cambiare le modalità maschili patriarcali, personali e istituzionali, di stare al mondo. E conosceremo una nuova accelerazione… e ci renderemo conto della grande verità che ci comunica Silvia Papi al termine della lettera, quando mette in relazione diretta la crisi economica – possiamo dire “l’economia” tout court “e le sue forme” – con le modalità di rapporto, collaborazione e scambio tra donne e uomini. Siamo davvero interessati a un’economia del benessere?

Beppe Pavan

 

DONNE, IL RISPETTO RIPARTE DA COLONIA
Lo scempio consumato la notte di Capodanno a Colonia sta imponendo a tutta l’Europa una rinnovata riflessione su quali siano le basi su cui impostare una convivenza tra “noi” e “gli altri” che sono arrivati e continuano ad arrivare. In queste basi, ai primissimi posti c’è il rispetto delle donne, nel corpo e nel pensiero, nella vita privata e in quella pubblica. “Gli altri”, si è detto, sono spesso portatori di un vissuto – un mix di religione, tradizioni e usi – di sottomissione femminile se non di autentica prevaricazione, e questo vissuto ha prodotto le molestie di massa nella piazza principale di Colonia.
A ricordarci bruscamente che la questione della religione come veicolo (o alibi?) della sottomissione delle donne non riguarda solo l’islam interviene con un certo tempismo la teologa femminista Elisabeth E. Green, pastora delle chiese evangeliche battiste di Cagliari e Carbonia. La tesi, assai nota, è che “lo stesso cristianesimo è stato terreno fertile per la cattiva pianta di leggi e tradizioni che opprimono e discriminano le donne”, ed era stata già sintetizzata nel 2000 nel saggio Lacrime amare (…).
Green continua: il cristianesimo ha stabilito un “nesso tra donna e peccato”, innescando un “processo di colpevolizzazione” che arriva ai giorni nostri; come non ricordare l’enfatizzazione della docilità della donna e della sua sottomissione presente in alcune Lettere del Nuovo Testamento, oppure il ‘paternalismo’ di padri della Chiesa come Sant’Agostino… (…)
Se è vero che sul rispetto delle donne si gioca parte della partita della convivenza con le comunità immigrate, è altrettanto vero che occorre una attenta autocritica ‘interna’ alla società occidentale, cristiana e secolarizzata. I residui di quella “cultura cattiva”, e che evidentemente sono penetrati a fondo in secoli di marginalizzazione femminile, sono davvero sepolti per sempre? La domanda resta aperta e basta uno sguardo a certi programmi tv e pubblicità per capire che tanto resta da fare sul cammino di una reale ed effettiva pari dignità.
Vale la pena qui accennare a un altro libro da poco pubblicato sul tema, scritto da una psicologa torinese, Silvia Bonino. In Amori molesti (Laterza, pagg. 146, € 15) la studiosa ricorda come sia la parte più antica (a livello evolutivo) del cervello, quella rettiliana, a favorire nell’uomo una sessualità aggressiva e nelle donne una tendenza alla sottomissione e alla paura. Istinti, si potrebbe semplificare, corretti dall’evoluzione e dalla socialità positiva che si instaura tra le persone.
Ma la società spesso solletica proprio gli istinti primitivi dell’uomo (che dire della pornografia diffusa, della libertà elevata a idolo, delle donne-veline, del perpetuarsi di rapporti di potere sul lavoro e in famiglia, del sesso usa e getta tra gli adolescenti…) e il risultato è che in Europa, nella “nostra cultura che si considera orgogliosamente evoluta”, almeno il 10 per cento delle donne ha subito qualche forma di imposizione sessuale.
La conclusione di Bonino in fondo è la stessa di Green: serve ancora tanto lavoro. Educativo, prima di tutto. E forse una sana autocritica: anche ripartendo da Colonia.

Antonella Mariani – su Avvenire del 17.1.16 (proposta da Arci)

UN PENSIERO DAL NATALE DEL 2015…

Da molti anni ce lo ripetiamo, ad ogni Natale, e facciamo bene: la veglia natalizia celebrata in comunità non deve essere solo l’occasione per ricordare e far rivivere, magari con commoventi drammaturgie, il contesto e i singoli particolari della nascita di Gesù, come l’ha raccontata Luca decine di anni dopo la sua morte. Per noi deve essere l’occasione per rinnovare l’impegno a “rinascere”, a rinnovare, a fare nuova la nostra presenza nel mondo.
In questa serata di veglia ci invitiamo, quindi, a riflettere e a pregare insieme perché impariamo, ogni giorno un po’ di più, a fare nostro il “modello – Gesù”: non limitiamoci mai a riflessioni teologiche più o meno intellettuali, ma facciamone un sentiero quotidiano di conversione, di autoevangelizzazione. E ricordiamoci anche che la conversione, come ogni pratica umana, è sessuata: siamo uomini e donne e la differenza tra noi non è solo irriducibile, ma anche naturale e buona, a patto di viverla secondo l’unico grande comandamento dell’amore.
Quello che, nel pensiero e nelle parole di Gesù (cioè nel suo “ordine simbolico”, per usare un’espressione che le donne del femminismo ci hanno reso familiare, anche se a volte sembra difficile da capire) è la cultura e la pratica delle relazioni amorevoli, empatiche e conviviali, con “chiunque”: ogni uomo e ogni donna che vengono al mondo, dovunque nell’universo, “mi è fratello e sorella e madre”. Così dice Gesù in Marco 3,35. Così dev’essere per noi, per essere costruttori e costruttore di pace, di cieli nuovi e di terre nuove, in un mondo dove sembra prevalere la cultura dell’esclusione o della sottomissione nei confronti delle donne, degli stranieri, dei bambini, dei disabili, degli omosessuali, dei poveri… Perché è la cultura della centralità dell’uomo, del potere, dell’autoritarismo, della misoginia e dell’omofobia, ecc…
Evangelizzarci, cioè imparare a incarnare l’amore, ogni giorno un po’ di più, nella nostra vita di uomini e di donne: questa è la riflessione a cui ci invitiamo questa sera. Per Gesù è stata una scelta consapevole di vita: abbandonare la cultura patriarcale per percorrere l’altra strada, quella in cui l’unico padre è Dio, ma è un “padre non patriarcale”, perché la Sua legge è l’amore. L’amore è la Sua volontà, quella nominata da una traduzione popolare del canto degli angeli sulla grotta di Betlemme: “pace in terra agli esseri umani di buona volontà”. La traduzione più corretta dice “pace agli esseri umani che sono benvoluti da Dio – cioè che piacciono a Dio, che sono oggetto del Suo beneplacito”.
Tutti gli esseri umani sono amati da Dio, perché siamo Suoi figli e Sue figlie, ma “benvoluti” sono coloro che “fanno la Sua volontà”, cioè vivono con amore e, perciò, sono “fratello e sorella e madre” di Gesù, di ogni uomo e di ogni donna. Questa è l’“altra strada” su cui siamo chiamati/e a camminare. Ognuno/a di noi esamini costantemente se stesso/a: uomini e donne, nella nostra reciproca differenza, aiutiamoci ad essere coerenti, sempre più “perfetti/e” nella nostra creaturalità, parziale e fragile.

 

… e uno dal capodanno del 2016: per Nino
Mi guardo intorno e testimonio
quello che credevo vent’anni fa e, oggi, con più forte convinzione:
la forza dell’evangelo continua a suscitare,
nel popolo di Dio che è l’umanità, uomini e donne di oggi,
un attivo impegno di conversione personale.
Chi non si riconosce più nel cattolicesimo e abbandona la chiesa cattolica
non perde necessariamente la fede:
anzi, può essere segno di speranza
per chi vuole continuare a camminare sui sentieri della liberazione
in forza di una libertà evangelica
che sostiene l’amore per l’umanità e la condivisione di pratiche liberanti.
Tra costoro ci sono certamente uomini e donne di Noi siamo chiesa,
di comunità di base, di gruppi e associazioni dell’arcipelago cattolico…
Ma non solo:
c’è tutta la grande unica comunità di base
che è l’umanità
e, in special modo, gli uomini e le donne
che ne animano e sostengono il desiderio infinito di libertà,
di giustizia, di amore,
di relazioni di cura e di convivialità tra tutte le differenze.

Beppe
SUL PADRE
In una cultura/società patriarcale le regole le detta il padre. In una matrifocale lo fa la madre, con il riconoscimento di tutti e tutte.
Nella società attuale, periodo di trasformazione e cambiamento, il padre perde necessariamente potere, che si trasferisce alla madre. E’ opera del femminismo. Ma non è trasposizione di potere dominante. La madre detta le regole fondamentali: convivialità, cooperazione, cura, rispetto reciproco, pace, nonviolenza… Il padre impara queste regole, le pratica e offre il proprio modello ai figli.
Certamente nel periodo di transizione il peso maggiore è sulle spalle della madre; il padre è inizialmente disorientato, deve capire, prendere consapevolezza, assumersi responsabilità nuove. Chi non reagisce con rifiuto e violenza, a poco a poco capisce la convenienza della novità: la trasformazione a cui è chiamato apre le porte su uno scenario di vita molto più piacevole, anche se faticoso rispetto ai privilegi della pigrizia e del dominio precedenti.
Le nuove “regole” a cui il padre ispira la propria vita, offrendone il modello ai figli, sono ispirate alla cooperazione e alla convivialità di tutte le differenze. Non dovrebbe stupire né la preminenza della madre né l’evaporazione del “vecchio” padre. Il sorgere di un padre “nuovo” dovrebbe essere salutato con gioia e speranza, e la fatica di aiutarlo ad assumersi fino in fondo le sue nuove responsabilità dovrebbe essere compiuta da tutte e tutti con gioiosa sollecitudine. A partire ciascuno da sé, confrontandosi nel cerchio vitale di ogni gruppo di pari, davvero ci si aiuta e ci si sostiene.
Intanto, non dimentichiamo che anche per la madre non tutto è facilissimo: non parlo solo della fatica di un compito gravoso, dovendosi caricare anche del peso di aiutare la schiusura del bozzolo del nuovo padre; penso a quanto pesano, nella vita attuale della madre, le ricadute della cultura patriarcale in cui da millenni vive e a cui è costretta ad omologarsi. Anche la madre deve uscire dalla vecchia pelle dell’omologazione, del consumismo, della sottomissione predicata dai preti con minaccia di dannazione eterna…
La pratica della cooperazione tra madre e padre richiede impegno costante e consapevole: la quotidianità è faticosa. La aiuta il cerchio di pari e il confronto con il padre e il suo cerchio. La mediazione progressiva, consapevolmente praticata da entrambi, nel costante confronto collettivo e reciproco tra pari, aiuterà entrambi a non tornare indietro dopo aver spalancato quella porta.

beppe

 

 

A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre

 

 

 

Portami con te lontano
…lontano…
nel tuo futuro.

Diventa mio padre, portami
per la mano
dov’è diretto sicuro
il tuo passo d’Irlanda
– l’arpa del tuo profilo
biondo, alto
già più di me che inclino
già verso l’erba.

Serba
di me questo ricordo vano
che scrivo mentre la mano
mi trema.

Rema
con me negli occhi al largo
del tuo futuro, mentre odo
(non odio) abbrunato il sordo
battito del tamburo
che rulla – come il mio cuore: in nome
di nulla – la Dedizione.

 

 

È una poesia di Giorgio Caproni, che Alessandro Marcellini mi ha fatto conoscere a Bologna: un inconsueto e affettuoso antipasto, aspettando la cena di Maschile Plurale; gliel’ho chiesta per condividerla (bp)
COS’I’ COM’E’ LA SCUOLA NON SERVE A NULLA…
Nel Pinerolese sta nascendo un coordinamento di docenti – e, in prospettiva, di adulti/e in generale – convocati/e dalla proposta di praticare e diffondere l’educazione alle differenze, alle relazioni, ecc.
Sono convinto che la scuola sia il luogo “centrale” insostituibile per seminare e far crescere questa consapevolezza nella parte adulta dell’umanità: imparando il rispetto e la cura nelle relazioni, adulti e adulte diventeranno educatori/e sempre più efficaci nei confronti delle successive generazioni. Contribuendo così ad avviare il mondo su una strada migliore.
La scuola è centrale, secondo me, perché nella scuola passano tutti gli uomini e tutte le donne che diventano poi genitori, educatori/e, preti, allenatori/e, eccetera… Importante è che crescano consapevoli che la genitorialità adottiva, al di là di quella biologica, è un compito inalienabile per ciascuno e ciascuna: siamo corresponsabili in solido dei cuccioli e delle cucciole che crescono.
Ma… “così com’è la scuola non serve a nulla”, scrive un preside sul numero di dicembre 2015 della rivista Qualevita, bimestrale di riflessione e informazione nonviolenta edito a Torre dei Nolfi (AQ). Riporto integralmente la sua riflessione, che condivido molto (bp).

 

 

abbiamo letto

Augusto Cavadi, MOSAICI DI SAGGEZZE. Filosofia come nuova antichissima spiritualità,
ed Diogene Multimedia, Bologna 2015

Il libro ha catturato la mia curiosità “interessata” fin dalle dediche: “… agli amici con cui organizzo … le Domeniche di spiritualità laica per chi non ha Chiesa”. La spiritualità non è “roba da Chiese”, da preti, da pastori… è di ogni uomo e di ogni donna; e la sera che l’autore lo ha presentato a Pinerolo eravamo tanti e tante “credenti senza Chiesa” ad ascoltarlo e a dialogare con lui e tra noi.
Un volume di quasi 300 pagine, corredato da 910 note, un indice dei volumi citati e uno dei nomi. Ma lasciamo perdere i numeri… Leggendolo (avevo il compito di presentarlo) vi ho colto un “filo rosso” in due parole: senso critico e spiritualità naturale, che lui presenta (pag 19) come “piacere di conoscere la realtà vera”. Tocca a ciascuno e a ciascuna scegliere di “incarnare” questo amore per la sapienza (filo-sofia), che la Bibbia ebraica ci dice essere uno dei volti del divino, del “divino che è in noi”, come ci raccontano le donne delle comunità di base – imparando sempre di più a praticare quel senso critico che è il “modo della nostra spiritualità”: la “laicità più radicale” (pag 12). Poi ho ritrovato due parole che mi sono care e preziose: consapevolezza e responsabilità, che sono i binari fondamentali su cui si snoda il cammino degli uomini che cercano di trasformare la propria maschilità per una nuova civiltà delle relazioni.

Cavadi, filosofo di strada (come ama definirsi) e professore di filosofia, ci fa accompagnare in questo percorso di conoscenza e di saggezza dal pensiero di centinaia di filosofi e di qualche filosofa, dall’antica Grecia ad oggi. In realtà cita poche donne, e la cosa mi ha turbato non poco. Poi ho riflettuto sul fatto che, per evitare che sia un mero vezzo intellettuale – purtroppo succede – quello di citare donne femministe dimostrando di averne letto i libri, è necessario incarnarne gli insegnamenti. In questo Cavadi mi sembra molto coerente: nel libro e nel dialogo con lui ritrovo l’ascolto, il partire da sé, la coerenza tra affermazioni e vita, la convivialità delle differenze, il rifiuto delle gerarchie… In un certo senso si dimostra continuatore dell’opera degli uomini raccontati da Gabriele La Porta in Il ritorno della Grande Madre: uomini che hanno traghettato la cultura matriarcale attraverso i secoli difficili e bui, grazie al fatto di essere uomini, accolti nei circoli intellettuali maschili e accettati dai loro congenri.
A volte citare e dichiarare la propria riconoscenza e il proprio riconoscimento a quelle donne provoca reazioni di chiusura e di silenzio. Meglio, quindi, concentrarsi sulla diffusione dei messaggi e sulla contaminazione delle pratiche di vita. E’ necessario anche, però, che tutto questo venga correttamente recepito e riconosciuto, anche dalle donne: che il non citarle non venga sempre interpretato come ignoranza, misconoscimento, supponenza patriarcale.

Mi sembra stimolante e illuminante la “proposta di Peter Handke”, citata da Augusto a pag. 15, “di intendere ‘ripetizione’ come sinonimo di ‘ritrovazione’ (un ritrovare ciò che si era perduto per farne risorsa creatrice di futuro)”. Cavadi lo dice a proposito delle “citazioni”, di cui fa uso abbondante nel libro. E continua, quasi a sostenere la sua scelta, con una dichiarazione di Plotino: “Questi discorsi non sono una novità… ma sono stati fatti da lungo tempo, sia pure non esplicitamente, e i nostri ragionamenti attuali si presentano solo come interpretazione di quelli antichi…”.
Antichi “come le montagne”, mi viene da dire, parafrasando Gandhi. Antichi come l’ordine simbolico della madre, che ha guidato il millenario (“milionario” bisognerebbe dire) processo di ominazione e di crescita della specie umana, e che solo recentemente è stato investigato e descritto e proposto alla nostra attenzione da Luisa Muraro, la cui “interpretazione” mi ha coinvolto e convinto: è l’ordine simbolico anche per noi uomini, radicalmente alternativo all’ordine patriarcale. E’ una “tessera di saggezza” che propongo ad Augusto Cavadi di inserire nei suoi “mosaici”.
bp

Per informazioni e invio materiali: la redazione è presso Beppe Pavan – C.so Torino 117 – 10064 Pinerolo
tel. 0121/393053 – cell. 3391455800 – E.mail: carlaebeppe@libero.it
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Lo invieremo comunque a chiunque ce lo chieda, sia in formato cartaceo che web.

 

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