NUMERO 2 – 2016

www.maschileplurale.it

n° 2 – 2016 ISSN 1720-4577

 

 

 

8 MARZO 2016

Rari
sempre sono stati
dei primi giorni di Marzo
i fiori.

Ancor di più
lassù, tra i monti,
laddove più a lungo
dorme la quercia e il castagno.

Primule furono
e non mimose
quelle in cui il coraggio
per primo sbocciò
in una terra ancora stretta
dalle mani del gelo.

Esempio fu il loro,
sacrificio,
spesso,
che fecondò il tempo
con colori
nuovi.

Nel vento
i loro semi
lievi di futuro
a noi
lasciarono.

Alessandro Marcellini

MEDICINA D’AMORE

 

Per me è orgoglio, un orgoglio d’anima. Cioè? Non lo so, ma sembra quella pressione interiore che così chiamiamo e che talvolta preme tra il petto e la testa. La sento più piena, rotonda. Quando la presento e dico lei è mia figlia, beh, sono orgoglioso. Ma non fraintendetemi, è una ragazza – meglio, una donna trentenne – che ha, oltre a tante altre, una particolare qualità: è mia figlia. E mi riempio la bocca quando la presento: è mia figlia! E chissà perché mi si allarga il cuore d’orgoglio. In fondo è l’unica cosa (in senso lato, concedetemelo) che è veramente mia. Certo anche di sua madre, del suo fidanzato, del suo mondo intero, ma non è questa la sottigliezza. Laura è mia perché è mia figlia. Poi è di tutto il resto che va ben oltre il suo piccolo padre. Anzi, più è del mondo più sono felice perché è di se stessa.
L’amore per i propri figli è un sentimento certamente non assoluto ma parecchio diffuso. Talvolta assume caratteristiche che il codice civile definisce “proprietà privata”! È mio figlio, ha una recinzione attorno che lo lascia libero per tutto tranne che per quello che ritengo sbagliato. Solo quelle tre o quattro cosette (pardon, ho dimenticato lo zero) che proprio non…
Mio padre amava i suoi figli, era lampante. Quando arrivavamo in casa dei miei, intendo da ben adulti, il suo sguardo s’illuminava, specialmente da anziano, perché prima, quando eravamo ragazzi, era severo e bacchettone. Mia madre era più nordica, benché fosse per metà pugliese. Quando la mia mamma – mi piace dirlo, ha un bel suono – perse sua figlia, la quarta e più giovane, perse aria attorno a sé. Perse la gioia e la voglia di vivere. Come tanti genitori, anche loro cercavano di erigere steccati che l’onda di piena sempre travolge. Per inciso: mi manca quel loro sguardo.
I figli sono aria, quella più ricca di ossigeno che respiriamo. Aria d’alta quota. Certo, si può respirare bene anche in campagna, anche nel mar Morto – meno 423 metri sul livello di Riccione – io ho provato, si respira benissimo. Però… però.
L’orgoglio cui faccio riferimento prescinde da me e anche da mia figlia. In realtà non importa cosa lei sia, è un sentimento proprio “a prescindere”, è la sorpresa, la scoperta, la gioia di aver, seppur minimamente dal lato pratico ma molto di più dal lato simbolico, partecipato all’eterna giostra della vita, al suo circolo, alla sua riproduzione. E a prescindere è anche l’amore verso un tuo figlio, perché è un amore indifeso, che si arrende alla sua essenza. Ed è proprio questo essermi sentito indifeso, e questo accettare “a prescindere” l’essenza dell’amore, che è stata, e immagino sia per quasi tutti, la rivelazione e la rivoluzione del mio diventare padre.
Ed è vero che, in qualche maniera, il diventare genitore è stato per me come un primo nuovo respiro di aria diversa. Come quello del figlio appena nato.
E allora, cos’è questa, l’apologia del genitore? Beh, insomma, per chi non ne ha, per chi è titubante, per chi è ancora in tempo – rimpiango di non avere avuto coraggio di averne altri – è una buona medicina d’amore. Guarisce da tante ipocondrie, perché quando ami i tuoi figli può essere che ami di più il mondo.

Giancarlo Viganò (Dal sito di maschileplurale – i quaderni del venerdì 18)

 

MATERNITÀ SURROGATA, DIFFERENZA E LIBERTÀ
La discussione di questi giorni sulla maternità surrogata o di sostituzione mi ha riportato in mente le riflessioni di alcune donne della differenza svolte ormai 20 anni fa, quando ci si cominciava a interrogare sulle trasformazioni prodotte dalle nuove tecnologie nello scenario della riproduzione. Si discuteva allora del potere sociale acquisito dalla medicina nel campo della procreazione, dell’uso del termine “artificiale”, della diagnostica prenatale e della fecondazione in vitro, della maternità surrogata e della possibilità di realizzare un utero non umano.
Allora come oggi, forte era la preoccupazione che uso e significati associati a queste tecnologie producessero nuove forme di occultamento del corpo e della soggettività delle donne e dunque uno svuotamento simbolico del primato femminile nella procreazione. Il fenomeno era visto tenendo conto sia della separazione tra sessualità e riproduzione, di cui si era fatto carico anche il femminismo, sia di quel processo secolare con cui il patriarcato ha cercato di prendere il controllo del generare. In quest’ultimo caso, da cogliere era il passaggio dal controllo maschile del corpo della donna alla fantasia della sua totale rimozione e, insieme, la tentazione di cancellare l’asimmetria dei sessi nella generazione attraverso una idea di genitorialità omologata al modello maschile, cioè tutta “sociale”, slegata dalla gestazione.
La mossa davvero interessante di quelle riflessioni – mi riferisco ai testi di Maria Grazia Giammarinaro, Grazia Zuffa, Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch – fu quella di uscire dall’opposizione tra proibizionismo e libertà contrattuale, tra universalismo dei diritti e libero mercato dei corpi. In entrambi i casi, fu fatto notare, non si dà la rappresentazione simbolica del primato femminile nella procreazione. Scriveva Giammarinaro: “a una donna non si può imporre di essere o non essere madre […] di usare o non usare il proprio corpo a fini riproduttivi. Non lo può imporre una legge dello stato e non lo può imporre il contratto”.
In quel contesto, il femminismo rifletteva sulla nozione di “diritto minimo”, un diritto non divaricato dalla realtà, non prigioniero di principi assoluti (l’uguale per tutti, la vita), capace di corrispondere all’ordine delle relazioni (e non viceversa). Diritto minimo significava – e significa ancora – che c’è un limite che va posto alla legge, prima ancora che sia la legge a imporre i primi limiti alle relazioni. Il limite simbolico e pratico era individuato proprio nel primato femminile nella procreazione.
Nella discussione aperta dall’appello perché la maternità surrogata sia “messa al bando”, promosso da SNOQ/Libere, non vedo più traccia di queste riflessioni.
Se ne vedono le conseguenze nelle argomentazioni. Quando le argomentazioni piegano la libertà alla logica del diritto: contestare l’idea che maternità e paternità siano dei diritti (e infatti non si diviene madri e padri in forza del diritto) appellandosi però al diritto per vietarne alcune forme (e non sarà la “forza” del diritto a farlo). E quando le argomentazioni mettono sotto tutela la libertà femminile, come quando si presuppone che di fronte alla logica del mercato l’autonomia di alcune donne venga meno, perché incapaci di non farsi sfruttare (tanto più se sono le donne di paesi diversi dai nostri). L’appello in sostanza non cambia l’ordine del discorso (diritto/mercato) e fa un discorso che non può più fare ordine.
Io penso che la scommessa, di fronte alle grandi trasformazioni che caratterizzano il nostro venire al mondo, è che sia la differenza tra i sessi – e non le leggi – a fare ordine nelle nostre relazioni. Occorre tener ferma dentro ciascuno di noi, uomini e donne, questa differenza, per garantire che la mediazione femminile nella procreazione non venga mai meno, anche quando è quella di una donna che sceglie la maternità surrogata.
Lasciare che la libertà inciampi e risolva da sé le proprie contraddizioni non è il ritorno alla legge del padre.
Claudio Vedovati (dal sito http://www.donnealtri.it del 27.2.2016)

 

IL FRATELLO CONTROLLORE
(…) Quattro giovani sui 18 anni, tre maschi e una femmina, parlano di ragazze.
Ragazzo 1: “Perché se una va in chiesa e poi fa certe cose, a me non me ne importa se va in chiesa, perché resta una zoccola. Io ho smesso di andare in chiesa quando ho visto quella roba lì”.
Ragazzo 2: “E che cosa hai visto?”.
Ragazzo 1: “E’ troppo brutto da dire”.
Ragazzo 3: “E dai, erano lì e poi lei ha… ma non lo dico. E’ meglio lasciar perdere. Comunque erano insieme, e quando hanno sentito qualcuno arrivare lei è scappata e si è messa a ridere”.
Ragazzo 1: “Perché se una ragazza non ha un fratello maggiore che la guida e la controlla, finisce così. Perché lei vive da sola con la madre, che si vede che quando in casa non c’è un uomo le cose vanno così, che lei fa la zoccola”.
Ragazzo 2: “Ma che c’entra il fratello? Io penso che il 50% lo fa come sei stato educato, l’altro 50 lo fa come sei nato, e allora puoi avere il padre, il fratello, il prete che ti controlla, ma se sei così di natura non c’è niente che ti cambia. Toh, con un fratello forse arrivi all’80%, ma resta un 20 che non dipende dall’educazione”.
Ragazzo 1: “Comunque io la vorrei una ragazza, ma è davvero difficile trovarne una che non fa certe cose”.

Di tutta questa confusione sulle relazioni, sulle percentuali di educazione e natura che determinano quel che si diventa, mi ha colpito soprattutto una cosa: tutti erano d’accordo nel dividere le femmine fra zoccole e non zoccole. Non è tanto importante sapere che cosa abbia fatto quella ragazza, se abbia solo pomiciato o sia andata un po’ oltre. Il punto centrale del loro discorso è che danno per scontato che se una donna, e solo una donna, fa certe cose è una poco di buono.
Benché siamo nel 2016, si è ancora a questo punto, segno che anni di femminismo e cambiamenti sociali non hanno scalzato del tutto quell’antico e profondo sentire che vede nella libertà sessuale di una donna un pericolo, un limite da non oltrepassare se si vuole mantenere una reputazione e quindi l’etichetta di ragazza per bene.
E poi, ancora quell’idea che senza un uomo di famiglia che guida, indirizza e proibisce, le ragazze possano finir male, cioè darsi a chi vogliono, come vogliono e quando vogliono, nasconde il concetto di supremazia di uno sulla vita dell’altro, la convinzione che il maschio può prendersi tutte le libertà che vuole, mentre la femmina no, perché deve mantenersi pura per lui. Tutto ciò dimostra che certe conquiste non sono per sempre e che vanno ribadite finché diventano comune sentire. (…)

Mariangela Mianiti – su Il Manifesto del 10.5.16

 

L’EUROPA DELLE CITTÀ VICINE,
CONVEGNO DEL 21 FEBBRAIO 2016 A ROMA
L’Europa delle Città Vicine è il titolo del convegno che ha visto, domenica 21 febbraio 2016 alla Casa Internazionale delle donne di Roma, circa centoventi donne e uomini, più donne che uomini, provenienti da molte città, misurarsi sulla crisi dell’Europa e sulle prospettive e possibilità, a partire dalle esperienze già in atto, di aprire nuove vie per un’Europa più vicina alle vite, ai bisogni, ai desideri. Un’Europa che oggi presenta due facce, come hanno detto in apertura del convegno Anna Di Salvo, Simonetta Patané e Loredana Aldegheri. E come hanno confermato i contributi delle persone presenti e anche delle assenti, come il lampedusano Giacomo Sferlazzo, che ha mandato gli auguri di buon lavoro da parte delle donne e degli uomini di Askavusa di Lampedusa, e il curdo Tulip, che in un commovente intervento ha portato i saluti delle donne curde.
Da una parte c’è il volto dell’Europa delle istituzioni, del potere politico tecnocratico ed economico, un volto duro, di imposizione del linguaggio del rigore, dell’austerità, del controllo dei debiti e che produce impoverimento, meno diritti, segregazioni, frontiere, muri, che «dimostrano – ha affermato Anna Di Salvo – l’ottusità politica di un occidente europeo che esporta guerra, anche vendendo armi e militarizzando i territori in Sicilia come in Sardegna, a Lampedusa e in tutte le altre isole pelagiche, asseconda i nazionalismi, erige barriere e srotola lungo i confini filo spinato, che tanto non potrà arginare i flussi migratori di moltitudini di donne, uomini e bambini in fuga da paesi affamati e devastati che guerre intestine e invasioni terroristiche dell’Isis hanno reso luoghi dove la vita non ha più valore».
Dall’altra parte c’è il volto dell’Europa dei luoghi dell’approdo delle e dei migranti, dove donne e uomini – continua Anna – danno senso alle politiche dell’accoglienza: Ventimiglia, Calais, Lesbo, Kos e altre isole della Grecia, Lampedusa e tutti gli approdi siciliani, calabresi e pugliesi. Qui l’Europa sembra aver ritrovato la propria anima e i confini e le barriere respingenti si sono configurate in porte e soglie accoglienti, simili a quelle delle nostre case. Di quest’altra Europa, poco visibile, fa parte anche «la capacità generativa» di altri modi di fare economia da parte di molte imprese sociali di comunità e di territorio, dove a partire da forze umane – ha sostenuto Loredana Aldegheri della Mag di Verona – relazionali e sociali si adopera per un’Europa con al centro l’economia dei beni comuni, che può riposizionare il mercato.
Di quest’altra Europa fanno parte i luoghi della politica delle donne, le pratiche di cura delle città, dei suoi spazi e dei suoi tempi, di cui le Città Vicine sono espressione e che Donatella Franchi ha raccontato a partire dalla pratica creativa che insieme alle e agli abitanti di Bologna ha inventato per ripulire le strade, i muri degradati, scrostati, imbruttiti, intorno all’università. Il racconto di questa «pratica di invenzione», che ha aperto orizzonti e coinvolto molti giovani, Donatella l’ha affidato anche al linguaggio artistico in una mostra fotografica che ha esposto al convegno.
La ricerca artistica ha sempre fatto parte delle pratiche delle Città Vicine per raccontare le nostre città, così come hanno fatto artiste/i e intellettuali turchi – ha detto Katia Ricci – in una mostra al Maxxi di Roma su Istanbul, dove raccontano la lotta contro la demolizione del Gezi Park e contro la distruzione di gran parte dei quartieri della città. Dunque esistono i luoghi, le azioni, un’altra politica, un’altra economia – ha aggiunto Stefania Tarantino, sostenuta dall’intervento di Antje Schrupp, giunta appositamente dalla Germania per partecipare al convegno – che hanno trasformato il nostro modo di abitare il pianeta e che sono parte di quella Europa che vogliamo e che già stiamo costruendo con la politica della differenza.
Sono queste le «nuove istituzioni» – ricordate da Maria Luisa Gizzio – che Simone Weil considerava necessario inventare per poter rifondare l’Europa, dopo la tragedia della guerra e dei totalitarismi. «Al di sopra delle istituzioni – scrisse la Weil – destinate a tutelare il diritto, le persone, le libertà democratiche, bisogna inventarne altre, destinate a discernere e a eliminare tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna, della bassezza. Bisogna inventarle, perché sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili.» La scommessa oggi è rendere visibili le nuove istituzioni che già esistono, diverse da quelle che sono andate in crisi, aprire un conflitto tra le due anime dell’Europa e questo – come ha affermato Letizia Paolozzi – richiede un lavoro sul simbolico, sul linguaggio, in parte esistente, in parte da inventare. La scommessa passa dal pretendere di essere prese sul serio come noi oggi facciamo qui – ha detto Stefania Tarantino – il che vuol dire fare in modo che il pensiero delle donne agisca non solo nei luoghi che conosciamo ma anche fuori e contagi il mondo sociale e mediatico che ci circonda.

In questa Europa che si frantuma e consuma emerge in modo drammatico la questione del potere, ancora largamente in mano agli uomini, e che Maria Concetta Sala ha definito «una tragedia» perché «quando il potere si mette al servizio di se stesso» bisogna sapere che non ci può essere spazio né per la verità né per la giustizia (che per la Weil non sono di questo mondo) né per la bellezza (l’unica ad essere di questo mondo) da connettere a una nuova “visione” dell’Europa. Cosa possiamo chiedere alle donne e agli uomini – si è chiesta Maria Concetta Sala – che esercitano il potere? Possiamo aspettarci che possano ridurre in qualche misura il potere? Alla sua risposta negativa, Rosetta Stella ha osservato che se la verità e la giustizia non appartengono a questo mondo, uomini veri e uomini giusti sono di questo mondo, e sono quegli uomini che «danno ascolto al salto che si apre dalla tragedia del potere e che questo salto lo fanno».
All’obiezione di molte donne in sala sull’ambiguità del parlare di “uomini” («e le donne?») Rosetta ha spiegato di voler parlare davvero solo di uomini, perché «le donne giuste e le donne vere le conosciamo, invece riconoscere un uomo giusto e un uomo vero è sempre più difficile a questo mondo, tanto più in Europa». Uomini veri e uomini giusti sono forse gli uomini dell’Associazione Maschile Plurale, che hanno cambiato il loro rapporto con la logica del potere. Un cambiamento – ha detto uno di loro, Alberto Leiss – che riguarda anche altri uomini, come dimostra il fatto che «ci sono sempre più uomini che, anche quando non dicono cose condivisibili, parlano in quanto uomini».
Ed è del sesso maschile che ci parlano anche i fatti di Colonia, che hanno reso evidente come l’immigrazione è fatta per lo più da corpi di uomini “soli”, il che – secondo Letizia Paolozzi – solleva problemi sull’accoglienza. Forse, si è chiesta, sarebbe il caso di leggere meglio la legge canadese che prevede l’ingresso solo di nuclei familiari «perché la presenza delle donne significa per gli uomini autocontrollo attraverso lo sguardo femminile». E Simonetta De Fazi narra come nel corso delle sue attività dedicate alla questione delle migrazioni le sia stato chiesto di suggerire soluzioni che impegnino gli uomini nei campi profughi, in quanto le donne il da fare se lo trovano da sé.
Una crisi, quella dell’immigrazione, scoppiata – ha detto Loretta Napoleoni, arrivata al convegno alla ripresa del pomeriggio – «solo nel 2015, dopo quelle economiche finanziarie e del debito sovrano, quando improvvisamente abbiamo avuto il flusso di migranti che scappavano non dallo Stato islamico ma dai bombardamenti degli europei e degli americani». E mentre l’Europa dal volto duro si chiude in se stessa, l’altra Europa, quella dell’accoglienza, ne fa occasione di rinascita di tanti borghi abbandonati e spopolati, come in Calabria. Perché c’è chi respinge i rifugiati e chi l’accoglie? Domanda a cui ha risposto Mirella Clausi dicendo che «i posti di approdo sono i posti dell’accoglienza perché non c’è una distanza fisica. Invece quando il corpo non vede quale tragedia immensa stia succedendo, quelli sono i posti in cui c’è il rifiuto. Questo, purtroppo, fa la differenza».
Le immigrazioni, che hanno messo in crisi questa Europa, hanno messo a nudo – ha ripreso Giusy Milazzo – le debolezze e le insufficienze di questa Europa economica, hanno però aperto per noi la possibilità, l’occasione, il kairòs, per fare emergere l’Europa che abbiamo cominciato a costruire con la nostra politica della differenza e per ricomporre, ricucire, riparare la frammentazione dell’Europa, secondo l’antica tecnica giapponese del kintsugj, a cui Katia Ricci, insieme alle Città vicine, alla Merlettaia di Foggia e all’associazione Arteria di Matera, ha dedicato una mostra mail-art che ha esposto al convegno. Sulla strada della costruzione, invenzione e creazione dell’Europa che vogliamo, c’è un lavoro enorme da fare, ma un po’ lo stiamo già facendo, come ha mostrato questo convegno.

Franca Fortunato (www.libreriadelledonne.it, 25 febbraio 2016)

 

DIECI CAPACITÀ SEMPRE PIÙ NECESSARIE
nel mondo del lavoro, nelle associazioni, nella politica, nella vita quotidiana

1) Partecipare attivamente alla vita di un gruppo e conoscerne regole e valori.

2) Saper ascoltare gli altri.

3) Saper esprimere in modo appropriato e convincente le proprie idee.

4) Non interrompere chi sta parlando e parlare uno per volta. Mentre ha la parola uno, non parlare con altri.

5) Fare di tutto per realizzare i propri progetti, ma conservare il rispetto per gli altri e una sana scintilla di dubbio, che ci impedisca di credere di avere sempre ragione e, anzi, ci faccia temere il giorno in cui solo le nostre ragioni avessero a prevalere.

6) Saper lavorare con persone diverse per cultura, provenienza e appartenenza.

7) Essere elastici e disponibili a mediazioni o a compromessi, senza essere arrendevoli.

8) Saper assumere responsabilità e sapersi offrire come punto di riferimento verso il raggiungimento di uno scopo.

9) Non delegare ad altri compiti faticosi, ma discutere democraticamente l’assegnazione delle responsabilità.

10) Coltivare rapporti pacifici con tutti, ma non tacere il dissenso per amore del quieto vivere. Le buone amicizie si rinsaldano nella lealtà della parola che subito può far soffrire, ma alla lunga libera perchè parla chiaro.

Mario Dellacqua (da una email di Piero Baral del 3 3 16)
PRESENTAZIONE
DEL CERCHIO DEGLI UOMINI DI MILANO
Siamo un gruppo di uomini di Milano e zone vicine che si sta incontrando, due volte al mese, dando vita ad una esperienza in cui ci si confronta su tematiche di interesse comune, che hanno un senso e una importanza personale per ciascuno di noi. Esperienze non necessariamente collegate ad un ambito specificamente maschile, ma che, per le più diverse ragioni, risultano meglio condivisibili in un tale tipo di contesto. Inoltre, una delle caratteristiche del cerchio di Milano è quella di essere essenzialmente un gruppo di condivisione, rispetto a realtà presenti in altre città che, accanto al lavoro di “piccolo gruppo”, svolgono iniziative nel sociale, sul piano formativo, educativo e, più in generale, culturale. Un tale genere di impegno non rientra, per così dire, nelle linee programmatiche del cerchio di Milano; un’opzione in tale senso può essere compiuta sul piano delle scelte individuali dei partecipanti ma non del gruppo in quanto tale.

L’esperienza in corso non nasce dal nulla: per qualcuno di noi proviene dalle iniziative del “Cerchio degli uomini” di Torino e, per molti, da un’esperienza precedente sorta a Milano. Uno degli obiettivi comuni è quello di poter condividere con altri situazioni, tematiche, esperienze del proprio vissuto, avvertite come centrali, ma a cui è spesso difficile dar voce, persino nei rapporti di affetto e di amicizia. Gli incontri – della durata di due ore circa ciascuno – avvengono a casa di uno dei partecipanti.
Gli incontri si sviluppano su un piano paritario e orizzontale; non vi è pertanto un responsabile che organizza e conduce l’incontro, decidendo tempi e tematiche: più semplicemente, all’inizio di ogni incontro si sorteggia colui che sarà il facilitatore in quella giornata. Ciascun appuntamento inizia con un breve momento di rilassamento, seguito dal racconto, fatto da ciascun partecipante, su quanto è accaduto di significativo nei quindici giorni trascorsi dall’ultima volta in cui ci si è visti. Dopo di che si entra nel vivo dell’incontro, affrontando il tema concordato la volta precedente. Al termine, ogni partecipante condivide con gli altri il vissuto emerso dall’incontro. Per finire, viene concordato collegialmente l’argomento su cui verterà l’appuntamento successivo; la scelta collettiva del tema serve affinché tutti si sentano coinvolti in prima persona. L’attività si svolge quasi esclusivamente sul piano verbale, ma non sono esclusi momenti di movimento e attività corporea.

Le poche, spicciole regole che vengono applicate hanno lo scopo prioritario di creare un contesto il più possibile accogliente e facilitante. La cadenza – come detto – è quindicinale, ma la frequenza non è rigida né tanto meno obbligatoria. Anche la partecipazione è totalmente libera, non forzata in alcun modo. E’ però richiesto un atteggiamento non giudicante nei confronti degli altri, in modo da consentire la libera espressione di ciascuno; infatti un’attenzione non formale nei confronti dell’altro è parte integrante del piacere di questa esperienza. Inoltre, affinché gli incontri risultino più efficaci e toccanti, si è invitati a un coinvolgimento non tanto di tipo intellettuale o razionale, astratto e generale, ma incentrato sul proprio vissuto diretto, privilegiando il piano delle emozioni e delle sensazioni per favorire appunto il massimo della spontaneità e il minimo dell’auto-censura. Ultima, ma non ultima fra le regole, è il rigoroso rispetto della riservatezza rispetto a quanto viene detto o accade nel gruppo.

Contatti: cerchiodegliuominimilano@gmail.com

 

DA NICARAGUA E GUATEMALA: EMOZIONI E PENSIERI

Un intero mese tra Nica e Guate non è molto, ma mi ha permesso di distrarmi meno con le curiosità superficiali e dedicarmi di più, invece, alle osservazioni e alle relazioni. Anche perché era la mia seconda volta in quei Paesi e ritrovare alcune persone amiche è stata davvero una grande gioia, facilitata dal superamento, a poco a poco, delle remore dovute al mio spagnolo maccheronico.

Oscar, il nostro ospite nicaraguense, ha combattuto per due anni nelle file dell’esercito rivoluzionario sandinista, fino alla liberazione dalla dittatura. Ce ne parla volentieri, con tono sommesso e pacato; e risponde anche alle mie domande sulle eventuali code di vendette nei confronti di chi stava dall’altra parte. Mi ha detto di non esserne a conoscenza, anche se non tutte le armi sono state evidentemente consegnate, neppure dopo la fine della guerra civile scatenata dalla “contra” negli anni ’90: ci sono ancora “banditi” che assalgono e depredano viandanti isolati di giorno o automezzi nel cuore della notte.

La corruzione è pratica quotidiana: l’abbiamo vista incarnata in poliziotti/e che minacciano multe insopportabili e poi le annullano in cambio di una cifra più modesta “per aiutare la famiglia…”. non c’è dubbio che sia la professione più ambita in Nicaragua… Mentre in Guatemala i giornali riportavano, un giorno, la notizia che 450 poliziotti erano stati arrestati per complicità nei più diversi reati: dal narcotraffico alle rapine, dagli assassinî allo sfruttamento della prostituzione…

L’altra cosa impressionante è vedere grandi estensioni di territorio, lungo le strade e intorno ai centri abitati, letteralmente ricoperte di plastica, soprattutto buste e sacchetti di ogni colore, che il vento allegramente sparpaglia, appiccica ai rami degli alberi, aggroviglia ai fili elettrici… Nonostante gli inviti, rivolti da numerosi e grandi cartelloni stradali, a non buttare per terra i rifiuti, al termine del pic-nic di Pasquetta la spiaggia di Granada, sul grande lago del Nicaragua, era ricoperta da immondizia. Solo due uomini ne approfittavano per raccogliere, con un bastone chiodato, le bottiglie di plastica…

A proposito del lago: è quello coinvolto nel progetto – commissionato dal governo ai cinesi – di costruzione del “gran canal” concorrente a quello di Panamà, ormai inadeguato al transito di navi sempre più mastodontiche. Abbiamo registrato opinioni diverse: da chi è favorevole, perché porterà ricchezza e benessere, a chi è contrario perché comprometterà l’equilibrio ecologico mettendo in comunicazione diretta l’acqua salata dei due oceani con quella dolce del lago. Ma anche i contrari mi sono sembrati rassegnati: “lo faranno!”.

Un’immagine forte, che mi accompagna da allora, è quella di una ragazza impegnata nello studio all’interno di un tugurio. Moli ragazzi, e ancor più ragazze, stanno frequentando scuole superiori e università, con forti motivazioni, che quel tugurio rappresenta eloquentemente. Ottima impressione ho ricavato anche dai ragazzi che al sabato giocano le partite del loro campionato locale di calcio: 14 squadre in un villaggio di cui nessuno sa dire quanti abitanti abbia (3000? 5000?), tutte con il loro giovane allenatore e tutte formate da ragazzi decisi nel gioco ma rispettosi, degli avversari e degli arbitri.

Poi ci sono i ragazzi e le ragazze di strada in Guatemala. Una mattina abbiamo accompagnato i volontari e le volontarie del Mojoca (MOvimiento JOvenes de le CAlle) che tengono i contatti con qualche gruppo che vive e dorme sui marciapiedi o sulle aree verdi dei parchi e che cercano di convincere a lasciare la strada per entrare nelle loro “case”, imparare un mestiere e rendersi autonomi in modo da tornare a vivere in modo dignitoso e libero. La prima cosa che hanno fatto, arrivati in piazza, è stata quella di invitarli a farsi lavare la testa con uno shampoo anti-pidocchi: sono rimasto edificato dalla cura quasi affettuosa con cui quei volontari, ex ragazzi di strada anche loro, insaponavano e sfregavano quelle teste… E poi con pazienza hanno spiegato ed eseguito giochi di movimento e giochi di ruolo, per farli riflettere – quel giorno – sull’importanza del preservativo per prevenire malattie e gravidanze indesiderate.

Julio lo conoscete già: ogni tanto lo nomino, perché fa parte dell’ “Associazione nazionale di uomini contro la violenza”, impegnata in tutte le regioni del Nicaragua in iniziative di formazione per adolescenti, giovani e adulti. Mi ha detto che negli ultimi anni il governo ha istituito “commissioni di genere” in tutte le municipalità, con uffici dedicati, di cui ho visto l’insegna in alcune città. La violenza maschile contro le donne è anche leggibile da frasi scritte su molti muri, specialmente nella capitale del Guate; sono evidentemente opera di donne che vogliono mantenerne viva la consapevolezza: “In Guatemala – ad esempio – c’è stata e c’è violenza contro le donne”.

E’ impressionante – tanto in Nica che in Guate – la massa di citazioni bibliche e di frasi a contenuto religioso disseminate ovunque: sui muri, nelle insegne dei negozi, sui bus e sui taxi… Ad esempio (non hanno bisogno di traduzione): “Tu mejor candidato: Jesus Cristo”; oppure: “Dios me guìa” (mi guida) è il motto di molti autisti di bus e taxi; che dichiarano anche che il loro automezzo è “Regalo de Dios”. “Regalo de Dios” o “Bendicion de Dios” sono il “cognome” di tantissimi negozietti, ad es. “Panaderia Bendicion de Dios”… e così via. D’altronde sulle gigantografie del presidente Ortega compare quasi sempre la parola d’ordine “Fe, familia y comunidad”, dove Fe significa “fede” e mi ricorda un’altrettanto famoso “Dio, patria e famiglia”… Impressionante, poi, l’enorme cartellone stradale all’uscita da San Salvador, su cui campeggiava una grande immagine di Gesù con la scritta “Ten misericordia de nosotros y del mundo entero”. E siamo in paesi ai primi posti nella classifica mondiale della violenza… come dire: “abbi misericordia di noi che non ne abbiamo molta per i nostri simili”. Ci hanno detto che solo nella capitale del Guate ogni giorno vengono compiuti da 30 a 35 omicidi…

Il Guatemala, con il presidente della repubblica sotto processo e la vicepresidente in carcere, è percorso quasi ogni giorno da cortei di protesta e da manifestazioni sindacali: il personale della scuola ha manifestato per due giorni consecutivi davanti ai palazzi del potere; infermieri e personale sanitario sfilavano in corteo intorno all’ospedale; il 22 aprile, giornata mondiale della Terra, i contadini hanno invaso la capitale per protestare contro i latifondisti che deviano i corsi d’acqua per irrigare le proprie piantagioni di canna da zucchero e di palme da olio, lasciando a secco i piccoli campesinos… Pensavo che anche in questo tutto il mondo è paese: finché non saranno gli ultimi e le ultime a governare, abbattendo la piramide, le leggi non saranno mai davvero per il bene comune, ma solo per i ricchi. Che sanno sempre a chi dare il voto…

Ernestina, donna maya che ci ospita a Città di Guatemala, un giorno ci ha parlato delle sue pratiche di medicina naturale: agopuntura, digitoterapia, erbe… e ci ha detto che ogni mattina beve la sua prima urina, “acqua della vita”. Inoltre beve molta acqua e non assume mai medicinali di sintesi chimica (le piacciono però le pastasciutte all’italiana…). Purtroppo le riesce difficile convincere a queste pratiche anche le donne maya che vengono a consultarla o a farsi curare da lei, perché vogliono le pillole “miracolose”, quelle che fanno passare rapidamente il dolore. Il consumismo! E’ stato un pensiero che si è insinuato in profondità dentro di me, e ancora me lo sto rigirando tra le sinapsi: forse anche noi dovremmo cercare di non alimentare il consumismo con la motivazione della solidarietà. Anche in questo campo la strada dovrebbe essere quella diretta del commercio equo e senza intermediazioni speculatrici, scegliendo con cura, se possibile, da chi rifornirci di prodotti artigianali da rivendere per mandare denaro al Mojoca…

Con Ernestina abbiamo parlato anche delle nuove forme che assume la colonizzazione. Una deriva dalla “mexcla” tra popolazioni: uomini europei sposano o stuprano donne indigene e così, poi, riescono ad assicurare posizioni di prestigio e potere, nei villaggi, ai propri figli maschi. Molti cognomi maya si stanno perdendo, cancellati da quelli di origine occidentale. Come pure molte chiese cristiane sorgono ormai dove prima c’erano luoghi di culto maya… Dove non hanno potuto il denaro e la violenza lo ha fatto la religione: sottomettere le popolazioni indigene alla prepotenza dei colonizzatori. Un altro esempio è dato dal governo del Guate che nelle zone confinanti con il Messico vende le terre a poco prezzo a stranieri, espropriando gli indigeni e rendendoli, nel migliore dei casi, dipendenti salariati. Sembra che questa pratica sia guidata da consiglieri israeliani… E non dimentichiamoci che il deposto presidente Molina, ora sotto processo, è stato un famigerato e noto militare responsabile di stragi genocide ai danni delle popolazioni maya.

L’ultimo pensiero del dormiveglia a Chichicastenango: perché in Guatemala tanti ragazzi vivono sbandati per le strade? Non sono forse la denuncia evidente di un grave problema di quella parte del mondo adulto che non sa costruire vite di relazione – familiare e non solo – che siano includenti, coinvolgenti, conviviali…? Non è sufficiente prenderci cura di loro – di alcuni di loro – se non lavoriamo, contestualmente, alla prevenzione, ad esempio costruendo reti di adulti/e capaci di consapevolezza educativa e di iniziative permanenti di formazione alle relazioni e al rispetto reciproco. Mi tornano in mente, con gioia, Maria e Nestor, sociologa e psicologo al Mojoca, che hanno ascoltato con attenzione il mio racconto sui nostri gruppi di autocoscienza maschile e, al termine, hanno espresso all’unisono il desiderio di vederne nascere anche in Guate. Mi hanno dato i loro indirizzi email per restare in contatto, ricevere Uomini in Cammino e alimentare questo loro sogno. Spero solo che Nestor provi a invitare gli amici: il nostro gruppo è nato così; e anche altri che conosco: ci vuole uno che prenda l’iniziativa.

Per finire: questa l’ho scritta all’aeroporto di Panamà City, guardando una luna enorme:

La stessa luna che venti ore fa
ammiravamo a Pinerolo: grande,
rotonda, inchiavardata al cielo!

Cielo di Panama, Nica e Guatemala,
cielo di Oscar, Luz e Nicolino,
di Julio, di Gerardo e di Ernestina,
dei niños de la calle e delle niñas
tenere e sole con la gran tribù
di bimbi e bimbe e della hormiguita
che “adonde vas esta mañana?. E ride
la mia tribù di piccoli varones
e di estrellitas affamate solo
di tenerezza, coccole ed abbracci…

Ahi luna! Sei la stessa luna
Che culli nella notte ogni varòn:
quello che ha niente e quello che affama
la niña disperata e la padrona…

Guardandoti ti prego: dammi sogni
di un mondo di giustizia che speranza
inoculi nel cuore di ogni me.

 

Due piccole note: la domanda alla “hormiguita” è la mia versione spagnola del giochino per bimbi/e: “formichina formichina, dove vai questa mattina?…”; “varòn/varònes” significa maschio/maschi del genere umano…

Beppe

Abbiamo letto
Jamie Sams, LE TREDICI MADRI CLAN DELLE ORIGINI, ed Venexia, Roma 2015

UNA BIBBIA PER L’UMANITA’
Non ho mai faticato così tanto a trovare le parole per cominciare a presentare un libro che mi ha entusiasmato. E allora lo faccio così come mi è venuto mentre lo chiudevo e pensavo a come farvelo conoscere, accettando di buon grado gli eventuali sorrisini…

E’ come la Bibbia ebraico-cristiana, ma con un altro immaginario: plurale femminile invece di singolare maschile. E’ una bibbia dell’umanità, con un grande vantaggio rispetto a quell’altra: qui non ci sono tutte quelle pagine “brutte” che Mary Daly avrebbe volentieri strappato dalla nostra Bibbia, riducendola a un fascicolo di poche decine di pagine.

E’ una narrazione nata e sviluppata all’interno di una cultura radicalmente matriarcale:

“Queste Tredici Madri rappresentavano tutto ciò che di bello c’è nella Donna e, in quanto parti del Sogno delle Origini, vennero a camminare sulla Terra, formando la Sorellanza che lega insieme tutte le donne come controparti sognanti al fine di manifestare il Sogno Originale di Pienezza sul piano fisico. (…) Pace perfetta e armonia, rispetto per tutti gli esseri viventi, amore senza condizioni, la verità come guida ultima delle nostre vite, eguaglianza per tutti, sono solo alcuni degli elementi del Sogno Originale di Pienezza” (pp. 27-28).

Queste Madri insegnano all’umanità a rinascere dopo la distruzione causata dall’avidità degli uomini: ci ricorda qualcosa?

L’Autora ha messo per iscritto la secolare tradizione orale delle origini del suo popolo, che è l’umanità, ricevuta da due anziane ultracentenarie kiowa, popolazione nativa del Nord America:

“Le nonne Cisi e Berta mi hanno trasmesso il dono della conoscenza delle Tredici Madri e ora è tempo per me di trasmettere questo dono alla Sorellanza dell’Umanità” (p. 16).

Da donne a donne, come sempre… Ma anche gli uomini possono beneficiare di questa conoscenza e di questi doni:

“I ruoli maschili e femminili nel genere umano germogliano dalle Tredici Madri Clan delle Origini, che emersero come aspetti della Madre Terra e di Nonna Luna, perchè tutte le cose sono nate dal femminile”. (…) E’ necessario tuttavia che ogni donna conosca l’eredità che le è stata lasciata, perchè solo così potrà imparare a guarire se stessa prima di reclamare il suo ruolo di guaritrice e nutrice degli altri. In questo modo l’aspetto ferito del femminile non avrà più bisogno di essere ostile, arrabbiato, separatista o manipolatore per nascondere antichi dolori e le donne potranno presentarsi come i modelli guariti, guidando le altre attraverso l’esempio che rappresentano anziché farlo attraverso la conquista o la competizione maschile. In questo modo consentiranno al nostro mondo di trovare un nuovo punto di equilibrio tra maschile e femminile” (pp. 16-17).

Come ognuno/a di noi è contemporaneamente e di volta in volta i diversi terreni su cui Dio semina la sua parola – secondo l’immaginario trasmessoci dai vangeli nella parabola del seminatore – così ognuna/o di noi è – può essere – invitata/o a essere, dal Grande Mistero, tutte le forme della Madre Terra, rappresentate e incarnate dalle Tredici Madri:

“Il cerchio sarà chiuso quando ogni essere umano potrà vedere la Bellezza dentro di Sé e dentro tutti gli altri. La trasformazione della competitività, della separazione, della gerarchia, della gelosia, dell’invidia, della manipolazione, del controllo, dell’egoismo, dell’avidità, della dipendenza, le vecchie ferite, il credersi superiori devono essere superati per poter raggiungere l’interezza. Questi atteggiamenti sono i nemici dell’umanità e si trovano nella parte in Ombra del nostro Sé e non fuori di noi” (p. 33).

Ogni Madre Clan ci insegna un’abilità. Quella del Sesto Ciclo Lunare, ad esempio, si chiama Cantastorie e

“ci insegna a parlare dalle nostre verità personali e dal nostro Sacro Punto di Vista quando ci è chiesta un’opinione. Quando non ci è chiesto un commento, ci insegna ad ascoltare senza sentirci obbligate ad aggiungere consigli non richiesti. (…) Parlare in verità è un’arte che non comporta mai il giudizio. (…) Come Cantastorie, una persona che voglia parlare in verità senza puntare il dito può condividere una storia su come lei stessa ha imparato una lezione o ha attraversato positivamente un momento di crisi” (p. 113).

Non so voi… io la sento come Madre Protettrice e Guida di noi uomini in cammino…

Due parole sulla struttura del libro. Ogni capitolo presenta una delle Tredici Madri: una breve sintesi del suo specifico insegnamento, seguita dalla trascrizione del racconto trasmesso oralmente dalle antiche antenate fino a Jamie Sams. Che ringrazio con tutto il cuore per questo libro, insieme all’Editrice Venexia per averlo pubblicato e a Luciana Percovich per avermelo prontamente segnalato.

Come vorrei che non ci limitassimo ad una conoscenza intellettuale di queste “buone pratiche”, ma le facessimo diventare nostre con ricerca e applicazione costanti!

Vi abbraccio e vi porto con noi in Nicaragua e Guatemala, ad incontrare qualche saggia donna maya…

*****
Ina Praetorius, L’ECONOMIA E’ CURA. La riscoperta dell’ovvio, IOD edizioni, 2016

Non ho ancora finito di leggerlo, ma prima di andare in stampa desidero condividere la riflessione che Adriana Maestro fa nella presentazione e che dice il senso della “radicalità del pensiero della Praetorius”, che sta “nel farci vedere che per ricreare il mondo bisogna ripensarlo, a partire da un lavoro indispensabile sul linguaggio”.
“Basti pensare a come la recente crisi finanziaria e bancaria sia stata fatta passare per crisi economica, coerentemente a come oggi l’economia si autodefinisce e a quello che reputa debba essere considerato ‘economico’. Gli effetti sono stati devastanti, milioni di persone buttate sul lastrico, inasprimento delle condizioni del lavoro, aumento smisurato delle condizioni di povertà e di fame sull’intero pianeta, uomini, donne, bambini che si muovono in massa in cerca di una possibilità di sopravvivenza: una crisi globale, come sappiamo.
Ma proviamo ora per un attimo a capovolgere il nostro punto di vista. Proviamo a pensare, a osare di pensare, che possa essere stata la nostra idea di economia, quello che noi riteniamo sia l’economia, ad aver portato a questa rovina. Il fatto di esserci allontanati dalla definizione di economia come attività volta a soddisfare i bisogni degli esseri umani, primo fra tutti la conservazione della vita e della qualità della vita. (…)
Se è vero che l’occultamento dell’ovvio è stato operato ad arte, è anche vero che per la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini questo inganno è ormai introiettato come vero, indiscusso e incontrovertibile. Per questo motivo, occorre un paziente lavoro di decostruzione e ricostruzione fatto di nuove pratiche, nuove parole, nuovi simboli. (…)
Sulle nostre coste si infrangono ogni giorno corpi che ci dicono, ci fanno vedere concretamente l’assurdità e la tragedia di quell’ovvio celato. (…) niente è più come prima, tutto è da rifare, c’è da ridefinire un nuovo ordine”.

Ce lo chiedono i e le migranti che ogni giorno – quelli e quelle che non muoiono lungo il tragitto – arrivano sulle nostre coste, costretti/e da quell’economia che non è “cura delle casa comune”, ma speculazione e ladrocinio da parte dell’1% dell’umanità a danno del restante 99.

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Kazmo Ishiguro, IL GIGANTE SEPOLTO, Einaudi 2015
Un romanzo intrigante, ambientato in un tempo fantastico, poco dopo la morte di re Artù, nella Britannia abitata da due popolazioni tra loro nemiche: i sassoni e i britanni. Ma una bebbia misteriosa, generata da un drago femmina, ha steso una coltre di amnesia sul territorio: le persone non ricordano nulla, né il bello delle loro vite né i torti subiti o i dolori provati.
Una coppia molto anziana si mette in cammino per raggiungere il figlio che se n’era andato di casa per stabilirsi in un villaggio vicino. Almeno questo è ciò di cui sono convinti. Sono innamorati e non si lasciano un istante; incontrano persone e situazioni anche difficili, ma cortesia e sincerità li aiutano a proseguire il viaggio senza dimenticarne la meta. Però il desiderio di veder morto il drago si accompagna a poco a poco al dubbio sull’esito che avrà la scomparsa della nebbia: continuerà a regnare la pace tra britanni e sassoni? O riacquistare la memoria dei passati conflitti scatenerà odio e vendetta?
Il viaggio di questi due vecchi è anche un cammino di consapevolezza: non solo degli antichi dissidi tra i due popoli, ma anche dei torti reciproci di entrambi. Ma la memoria a poco a poco riacquistata deve fare i conti con l’amore tenero e tenace che li lega e a cui non intendono assolutamente rinunciare. E la memoria si fa perdono. E fiducia, anche verso gli sconosciuti. Le relazioni sono sempre intessute di sincerità, dolcezza, rispetto.
Mi sembra una formidabile metafora del cammino di trasformazione della nostra maschilità: un cammino che si intraprende – salvo eccezioni – quando si è già un po’ avanti negli anni, quando la consapevolezza si accompagna più facilmente alla serenità e al perdono, per se stessi prima ancora che per gli altri. Quando si impara a parlare con verità sorridendo e guardando negli occhi l’interlocutore. Quando le relazioni d’amore si rivelano la cosa più preziosa e più bella che ci potesse accadere di vivere e a qualunque cosa si è disposti a rinunciare pur di non vederle morire. Quando impariamo a sollevare con coraggio la nebbia della rimozione dai nostri ricordi brutti, chiamandoli consapevolmente per nome e liberandoci così da pesanti sensi di colpa e di vergogna-
E allora, per metterla in politica, mi sembra un errore fondamentale “rottamare le persone anziane” da parte dei giovani, invece di fare un pezzo di cammino insieme, convivendo con la loro saggia diversità. All’isola della nuova vita si traghetta individualmente, ognuno e ognuna ci arriva con le proprie gambe; ma su quell’isola ci si ritrova insieme, con la compagna o il compagno della vita e con i compagni e le compagne di cammino, a condividere la felicità per il tempo che ci resta.
bp

 

“GIOCARE CON LE TETTE”:
L’IRONICA PROVOCAZIONE DEL CALCIO FEMMINILE

Leggendo Giocare con le tette, un agile e gustoso libretto che racconta una “storia al femminile del calcio”, si capisce come le infelici dichiarazioni di Felice Belloli e Carlo Tavecchio siano soltanto la punta di un iceberg che declina lo sport più popolare del mondo solo al maschile, oltre ad essere farcito di una serie di beceri luoghi comuni condivisi dalla maggioranza silenziosa, l’uomo qualunque della strada.
E allora, in vista della finale di Champions League femminile che si disputerà il prossimo 26 maggio a Reggio Emilia, un’anonima (o anonimo?) scrittrice/tore ha recapitato nella cassetta delle lettere della Fondazione per lo Sport del Comune di Reggio Emilia una busta contenente una chiavetta usb con l’invito a pubblicarne il contenuto in un libro il cui ricavato possa finanziare una campagna a favore del calcio femminile. La Fondazione per lo Sport di Reggio Emilia, ente che riunisce associazioni sportive dilettantistiche, soggetti del terzo settore ed è partecipata dal Comune stesso e dal Coni, non si è fatta pregare ed ha pubblicato il libro sulla fiducia. E quindi si scopre che le “quattro lesbiche che vogliono soldi”, evocate dal presidente della Lega nazionale dilettanti Felice Belloli, non godevano di gran considerazione nemmeno all’inizio del Novecento. Ad esempio, sotto il fascismo, Il Littoriale – così nel triste Ventennio era stato ribattezzato il Corriere dello Sport – dedicava buona parte delle sue forze a scoraggiare le donne dal gioco del calcio, polemizzando con alcune delle sue lettrici desiderose di scendere in campo: “Giuoco del calcio dunque, sì, ma per puro diletto con moderazione”, sosteneva il quotidiano, pubblicando l’opinione del fascistissimo medico Nicola Pende di Genova, primo rettore dell’Università Adriatica Benito Mussolini. Del resto, ben prima del fascismo, nel 1909, Guido Ara, centromediano della Pro Vercelli, aveva pronunciato la storica frase, tuttora di moda: “Il calcio non è uno sport da signorine”.
Tornando alla nostra epoca, evidenzia l’anonima/o autrice/tore del libro riprendendo quanto scritto da Artemio Scardicchio nel suo Storia e storie del calcio femminile (Lampi di Stampa Editore 2011), “i campi di calcio a 11 sono quasi sempre comunali e quindi… utilizzabili in egual modo da squadre maschili e femminili”, ma ad essere di troppo sono sempre le formazioni femminili, che devono farsi da parte per non rovinare a quelle maschili il manto erboso. E allora, purtroppo, non sorprendono le parole di Katia Serra, ex giocatrice della Nazionale e responsabile donne dell’Associazione Italiana Calciatori, che racconta di colleghe messe fuori squadra perché incinte, o costrette ad essere sfrattate perché la società di appartenenza aveva smesso di pagare loro l’affitto e comunque confinate al dilettantismo forzato. Come dire, le donne possono giocare al calcio solo come diletto, nel Ventennio come oggi, ma non dedicarvisi come professione. Il calcio femminile è stato sempre considerato come un fenomeno folkloristico, oggi come sessanta anni fa, e così, come evidenzia Carlo Ancelotti nella sua intervista rilasciata alla giornalista del Fatto Quotidiano Elisabetta Reguitti nella postfazione del libro, “in Nord America il calcio femminile è uno degli sport più praticati dalle ragazze a partire dalle scuole”, da noi siamo rimasti alla mentalità degli anni Cinquanta, ben raccontata dall’anonima/o che riprende un episodio raccontato da Giovanni Di Salvo nel suo libro Quando le ballerine danzavano con il pallone. Storia del calcio femminile con particolare riferimento a quello siciliano (Gea Edizioni, 2012). Le ragazze che scesero in campo nell’immediato dopoguerra al Cibali di Catania erano quelle della compagnia di operetta “Balletto Mercedes Fleurville Brillarelli”, che incrociarono i tacchetti con maschi del Calcio Club Catania. Insomma, le donne che giocavano a calcio al massimo potevano fare avanspettacolo, come era accaduto anche alla Favorita di Palermo, dove le ballerine del Teatro dell’Opera di Roma, in tournée in Sicilia, avevano già affrontato altre formazioni maschili e femminili. E invece, con buona pace di Belloli e del suo compare Tavecchio, il presidente della Figc noto per la sua uscita razzista (“noi diciamo che Optì Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”), attualmente in Italia giocano a calcio dodicimila atlete, di cui tremila nei campionati nazionali e ottomila nel settore giovanile.
“Ma come si fa a giocare con le tette?” è la domanda provocatoria che ricorre nel libro e che si pone l’universo maschile, abituato ad associare il calcio alle donne solo per parlare delle wags (wives and girlfriends of sportsman, il termine è stato coniato dai tabloid inglese). Se pensiamo che al termine della finale dei campionati del mondo di calcio femminile (disputati, beninteso, in via informale) del 1970 tra Danimarca e Italia, giocata al Comunale di Torino, il pubblico invase il campo andando a caccia degli indumenti delle danesi, si capisce come mai fino ai giorni nostri il calcio femminile abbia goduto, nel migliore dei casi, di scarsissima considerazione, per non dire di forti pregiudizi a cui tuttora deve far fronte.
In definitiva, il libro ha il merito, con una serie di riflessioni talvolta colte e talvolta ironiche, di raccontare la storia della società italiana attraverso episodi di costume narrando le difficoltà quotidiane a cui non solo è andato incontro il calcio femminile, ma, più in generale, la percezione del genere femminile nel nostro paese.

David Lifodi (dal blog “la bottega del barbieri” del 2.3.16)

“GIOCARE CON LE TETTE” di Anonimo – a cura di Milena Bertolini, presidente della Fondazione per lo Sport del Comune di Reggio Emilia – pagg. 109 – Aliberti compagnia editoriale, 2015, Reggio Emilia

 

COSA DESIDERA UNA MAMMA PER I FIGLI

(estratto da “Felicità è sentirsi comodi nel mondo” di Elasti, su D-La Repubblica del 13.2.16)

(…) Se mi avessero chiesto, in quel tempo in cui portavo in giro una pancia smisurata, uno sguardo liquido e un sorriso ebete: “Cosa desideri per l’inquilino che domani diventerà tuo figlio?”, avrei risposto, sprovveduta e leggera: “La felicità, naturalmente”. E avrei evaso, con un sostantivo sognante, semplice e terribilmente incompleto, un interrogativo smisurato che contiene ambizioni, bisogni, mancanze, proiezioni, modelli, visioni. Felicità era quello che volevo per loro, quando abitavano la mia pancia, quando erano piccoli, inconsapevoli e bisognosi di tutto, quando scoprivano il sapore della pizza o del cioccolato e si illuminavano di incredulo stupore, quando cadevano per terra, cento, mille volte, e si rialzavano immediatamente perché crescere è un’avventurosa necessità che richiede una tenacia ottusa e infaticabile.
Poi, da quella prima pizza e da quei primi passi, sono cresciuti. E forse, con loro, sono cresciuta anch’io. E la felicità, come ambizione, non è stata più abbastanza. Cosa voglio, oggi, per il domani di un dodicenne ruvido e sornione, di un novenne eccentrico e sognatore, di un seienne torvo e seduttore?
Vorrei che fossero uomini per bene, capaci di cucinare e cucire i bottoni, di chiedere scusa e accogliere, di abbassare la guardia e dire grazie, di essere se stessi sempre, di prendersi le proprie responsabilità, di guardare negli occhi, senza abbassarli né alzarli, di domandare permesso, di fare passi avanti e indietro, di ridere disarmati. Vorrei che fossero uomini capaci di rispetto e tenerezza, d’ironia e, soprattutto, di autoironia, d’integrità e coerenza, di generosità e tolleranza. E poi che trovassero una strada da seguire, una casa da costruire, un progetto più grande di loro su cui incaponirsi.
Vorrei che potessero scegliere dove e con chi stare e che lì ci stessero comodi. Vorrei che non conoscessero l’inquietudine distruttiva di chi non sa chi è. Vorrei che avessero spalle larghe per offrire riparo a chi non le ha. Vorrei che scoprissero un talento, una passione, un amore e che ci si dedicassero come a una missione vitale. Vorrei che un giorno, guardando indietro, sorridessero. E anche guardando avanti. (…)

Insomma, vorrebbe la loro felicità, in una parola.
bp

 

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