NUMERO 3 – 2016

www.maschileplurale.it

n° 3 – 2016 ISSN 1720-4577

 

 

 

IL 26 E 27 NOVEMBRE
UN IMPEGNO CHE NON SI ESAURISCE IN UN CORTEO

Il 26 e il 27 novembre, con un corteo e un’assemblea a Roma, le donne manifestano contro la violenza maschile: il tema non sono solo le politiche di contrasto, i fondi per i centri antiviolenza, ma il cambiamento di una cultura diffusa e pervasiva, che fa parte della nostra “normalità”.
La manifestazione è stata accompagnata da una discussione pubblica sulle modalità di una presenza maschile e sulla sua stessa opportunità. Noi pensiamo che sia giusto che siano le donne a decidere su questo. Le iniziative del 26 e 27 però sono state presentate dalle organizzatrici come aperte, e ci sentiamo impegnati a partecipare, secondo le modalità previste, così come in questi giorni partecipiamo a decine di incontri ai quali veniamo invitati in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
In parte sono anche prosecuzione delle iniziative indette da uomini con il testo Primadellaviolenza, da noi diffuso nei mesi scorsi insieme a altre reti e associazioni di uomini e di donne impegnate su questo terreno: numerosi incontri e manifestazioni sono stati organizzati da maschi contro la violenza maschile tra il 15 ottobre e i primi di novembre (a Livorno, Palermo, Roma , Bari, Genova , Milano, Bergamo, Pisa, Pescara e precedentemente a Foggia, Taormina e in altre località ), proprio per segnare una più evidente, profonda e autonoma presa di coscienza da parte degli uomini.
Condannare la violenza senza riconoscere la cultura che la produce e la giustifica è un gesto vuoto. La violenza riafferma un dominio, un ordine gerarchico tra i sessi, ma anche tra orientamenti sessuali. La violenza verso le persone omosessuali è l’estrema espressione di una realtà molto più diffusa, fatta di insulti quotidiani nelle nostre scuole e nelle nostre strade, di battute, imbarazzi, discriminazioni ed esclusioni.
Trasformare questa cultura, vivere il cambiamento che le donne hanno già da molti anni determinato, sono anche un’occasione di libertà per noi uomini, che può arricchire e aprire le nostre vite. Può rendere possibile un cambio di civiltà.
Crediamo che anche altre violenze, altre sofferenze abbiano a che fare con questa cultura della gerarchia, della paura e del dominio verso chi percepiamo diverso da noi. Così tolleriamo la sofferenza e la morte di chi fugge dalla guerra e dalla miseria in un mondo in cui crescono violenze, ingiustizie e disuguaglianze. Dimentichiamo di fatto la gravità della tratta di migliaia di donne schiavizzate per i consumi sessuali maschili. Accettiamo nuovi muri anziché impegnarci per un ordine internazionale più giusto e pacifico. La violenza razzista e nazionalista è solo l’ultimo segno di un continente europeo avvelenato dall’odio e dall’intolleranza.
Molti uomini in questi mesi hanno preso la parola pubblicamente, hanno promosso gruppi di discussione, appelli a un impegno comune, incontri in varie città. Emerge una consapevolezza nuova: la violenza maschile contro le donne chiama in causa noi uomini, il nostro modo di stare al mondo e nelle relazioni. Anche diverse voci femminili hanno sollecitato una presenza e un impegno maschile più forte e netto. Tutto questo resta ancora troppo poco visibile e diffuso nella società e sui media, poco riconosciuto dalla politica e dalla cultura.
Non si tratta di ergersi a giudici di altri uomini o a “difensori delle donne”, ricreando un ambiguo paternalismo, non basta attivarsi solo per sensi di colpa o senso del dovere: dobbiamo interrogarci sui nostri desideri, sulla capacità di riconoscere la nuova autonomia e la nuova libertà delle donne, dirci se può essere un’occasione di cambiamento delle nostre vite.
Il testo che indice l’iniziativa del 26 novembre invita a “una grande manifestazione delle donne aperta a tutt* coloro che riconoscono nella fine della violenza maschile una priorità nel processo di trasformazione dell’esistente”. Noi ci riconosciamo in questa proposta. Ma questo impegno non comincia e non finisce con un corteo.
Ci interessa soprattutto confermare e rilanciare una ricerca comune, tra uomini e donne, e tra le diverse identità sessuali, che già ha conosciuto e conosce momenti significativi di confronto, di elaborazione, e naturalmente di conflitto.
Ciò significa:
– proseguire e approfondire le esperienze di collaborazione già avviate sul terreno specifico della prevenzione della violenza maschile, con le donne di numerosi centri antiviolenza e le associazioni femminili e femministe;
– allargare lo scambio sulle nuove figure paterne, sulla genitorialità, sull’impegno contro gli stereotipi di genere nella scuola, nella famiglia, nei media;
– impegnarsi nella ricerca di una pratica politica comune per definire alternative ideali e materiali a un sistema sociale che aggrava le disuguaglianze, condanna le giovani generazioni alla precarietà, fomenta l’odio per lo straniero e il diverso, rifiuta di basare le nostre vite su quella capacità di cura che in realtà rende la vita stessa possibile e – quando si afferma – anche desiderabile.
E’ immaginabile un percorso condiviso su questi e altri temi, superando resistenze e diffidenze reciproche, affrontando costruttivamente le ragioni di conflitto, dando continuità all’incontro di una giornata in piazza?
Non crediamo sia utile una presenza maschile formale né un omaggio di maniera. La nostra partecipazione a questo grande processo di trasformazione ha senso se sarà in grado di dare voce a un desiderio maschile di cambiamento, a una scelta di rottura con un sistema di potere millenario, per una nuova libertà di tutti e tutte, e per ogni singola vita.

Antonio Canova, Paolo Cianchetti, Stefano Ciccone, Gian Andrea Franchi, Mario Gritti, Orazio Leggiero,
Alberto Leiss, Gabriele Lessi, Domenico Matarozzo, Alessio Miceli, Beppe Pavan,
Jacopo Piampiani, Roberto Poggi, Michele Poli, Claudio Tognonato.

 

PERCHE’ OCCUPARSI DEGLI UOMINI AUTORI DI VIOLENZA NELLE RELAZIONI AFFETTIVE

Siamo tutti pronti ad indignarci di fronte ai femminicidi, agli uomini violenti che picchiano la propria partner. La nostra condanna però non è sufficiente, poiché sottende una scarsa consapevolezza del fatto che il problema della violenza domestica è molto diffuso e ci tocca da vicino.
Definire gli autori di violenza come “mostri” rischia di risultare molto superficiale, poiché non aiuta a capire come si genera il maltrattamento nelle relazioni affettive. La violenza nelle famiglie è sempre esistita, ma veniva tenuta nascosta; le donne inoltre venivano invitate a sopportare per il bene della famiglia.
L’OMS ha definito la violenza domestica come “ogni forma di violenza, fisica, psicologica o sessuale che riguarda tanto i soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo.”
La violenza può assumere quindi diversi gradi di gravità: azioni di controllo ossessivo, ingiurie, umiliazioni, percosse, uccisioni. Non è frutto di un raptus, ma si tratta di un processo che l’autore di violenza stabilisce e mantiene nel tempo. Ad un episodio di maltrattamento segue spesso una fase di tranquillità, nella quale operano dei meccanismi per cui il comportamento violento viene minimizzato, negato. Dopo la fase di “luna di miele” la donna tende a percepirsi come responsabile e avverte un forte senso di colpa per avere provocato il compagno. Ciò rappresenta l’inizio di una nuova fase di tensione nella coppia e di esplosioni di violenza sempre più grave.
Non sono solo uomini “bruti” ad avere comportamenti violenti, ma anche professionisti di ogni tipo, studenti… Il maltrattamento è diffuso in ogni classe sociale, in ogni etnia. L’uso di alcol e droghe aggrava i comportamenti violenti, ma non ne è la causa.
La relazione con la partner è improntata al dominio e alla sottomissione, al possesso e alla gelosia.

Al pregiudizio secolare sulla donna, come essere inferiore, hanno contribuito filosofia, religioni e psicologia. Ecco cosa affermava San Paolo: “La donna impari in silenzio con piena sottomissione. Non permetto a nessuna donna di insegnare o dominare sull’uomo; voglio invece che stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo e poi Eva e ad essere ingannato per primo non fu Adamo bensì la donna che per inganno trasgredì… Le donne siano obbedienti al proprio marito come al Signore… Le donne tacciano nelle assemblee perché non è permesso loro di parlare: siano sottomesse, piuttosto, come recita la legge… Come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli ai mariti in tutto”.
La nostra cultura occidentale da molto tempo ha affermato, teoricamente, la parità fra uomo e donna. Nel senso comune però permane il pregiudizio secolare sull’inferiorità della donna, permangono modelli di comportamento basati sul dominio e sottomissione.

La sessualizzazione della donna inoltre, operata dai media e dalla pubblicità, presenta un’immagine della donna primariamente come essere sessuale. Il suo valore viene ricondotto unicamente al fatto che sia attraente dal punto di vista sessuale e viene considerata un oggetto sessuale. Sono più importanti le sue parti anatomiche anziché gli aspetti e le caratteristiche che fanno di lei un essere unico, capace di pensieri, affetti ed azioni.
Antichi pregiudizi e attuali modelli culturali costituiscono un terreno fertile a far sì che fra uomo e donna possano stabilirsi relazioni basate sul controllo e sulla sopraffazione. La donna non viene amata per le sue qualità e caratteristiche individuali, stabilendo un rapporto paritario basato sulla reciprocità, ma come qualcuno da assoggettare a proprio vantaggio.

Ai comportamenti abusanti, oltre agli aspetti culturali, concorrono altri fattori, come una mancata maturazione di alcune competenze ed abilità di vita. Gli uomini autori di violenza sono fermi ad una relazione con la donna fatta di potere e controllo. La donna non è amata come persona dotata di una propria individualità ed autonomia, con cui stabilire una relazione paritaria, ma come qualcuno da comandare.
L’esperienza ha dimostrato che i soli interventi punitivi nei confronti degli uomini autori di violenza sono insufficienti, poiché essi tendono a replicare i loro comportamenti.
Da queste considerazioni nasce il nostro Progetto “Liberi dalla violenza – Attivazione di un centro di accoglienza ed ascolto per uomini autori di violenza nel pinerolese,” che è stato elaborato da diverse associazioni operanti sul territorio pinerolese: AnLib, Svolta Donna, ADAMEVA, AMA, ARCI, Sicomoro, Uomini in Cammino. Al tavolo di lavoro hanno partecipato anche il Comune di Pinerolo ed il Consorzio dei Servizi Sociali. Hanno inoltre dato la loro adesione come partner i Comuni di Cumiana e Torre Pellice e l’ASL To 3.
Il Progetto si propone di attuare interventi preventivi, volti al cambiamento della cultura della disparità di genere, destinati a tutti gli operatori che svolgono funzioni educative: insegnanti, allenatori sportivi, sacerdoti, ecc.
Agli uomini autori di violenza, che accederanno al servizio, verrà proposto un percorso di cambiamento che prevede: ascolto telefonico, colloqui individuali di valutazione e motivazione, incontri psicoeducativi di gruppo che affronteranno varie tematiche legate alla violenza domestica e alle strategie per superarla. Il servizio sarà gratuito e gestito da operatori professionali e volontari che stanno concludendo un corso di formazione, svolto grazie al contributo economico del Centro Servizi per il volontariato VolTo e la Diocesi di Pinerolo. Il prossimo novembre avranno inizio gli incontri sul territorio pinerolese per informare la popolazione e le istituzioni e a gennaio 2017 il servizio sarà operativo e potrà accogliere i primi utenti.

Noi saremo impegnati in prima linea, ma la responsabilità di favorire relazioni affettive paritarie riguarda tutti, ciascuno nella propria professione, in famiglia, nella vita sociale.
Le relazioni affettive paritarie, libere dalla violenza, sono le uniche in grado di rispondere ai bisogni ed al benessere degli uomini e delle donne di oggi.

Renato Galetto

 

PERCHÉ RIFLETTERE NELLE SCUOLE SU STEREOTIPI
E RUOLI DI GENERE  SIGNIFICA PREVENIRE LE VIOLENZE

Giuseppe Burgio, siciliano, 46 anni, è ricercatore universitario di pedagogia e ha insegnato nelle scuole secondarie di primo grado. Al convegno di Bologna Educare alle differenze ha condotto il laboratorio – iperpartecipato – su “Maschilità, omofobia, bullismo e educazione”, che sono i temi del suo libro “Adolescenza e violenza”.

Giuseppe, quali sono le differenze di cui ci si occupa qui?
Siamo abituati a pensare alle “differenze” in termini di “diversità”, come se ci fosse una parte della popolazione che è “normale” perché corrisponde a una “norma”, e qualcuno che diverge, e quindi è “diverso”. Quasi tutti gli studi sul genere riguardano le donne perché, dato che la “norma” è a misura del maschile, le donne rappresentano una diversità, così come gli studi sull’omosessualità riguardano una diversità dalla “normalità” eterosessuale.
Il concetto di differenza invece a che fare con la reciprocità: “Io – uomo – sono differente dalla mia compagna, tanto quanto lei è differente da me”. Non c’è una norma da cui una parte diverge, ma differenze su un piano di parità. E su queste differenze ci si interroga. Solo di recente si è cominciato a parlare di differenza maschile. Che vuol dire “essere maschi” in questa società? Significa molte cose: le maschilità si trasformano nei luoghi, nelle età della vita…
Ma perché queste differenze c’entrano con l’educazione?
Perché le domande non nascono solo a livello accademico, è cambiata la società. Si mettono in dubbio una serie di luoghi comuni, di ruoli, di forme di dominio degli uomini sulle donne: il patriarcato. Questo ha comportato una crisi dei punti di riferimento, che si riflette sulla formazione dei giovanissimi. Mentre le bambine crescono in una società che offre molti modelli in cui identificarsi, ai bambini viene proposto sempre lo stesso modello, che però non funziona più. Il pater familias e il maschio dominante hanno perso potere, ma non sono emersi nuovi punti di riferimento positivi.

Alcuni temono che consista nell’insegnare “a essere differenti”…
Ci sono atteggiamenti nostalgici del vecchio modello patriarcale, che viene riproposto in forme esasperate, o di recupero del modello di eroe guerriero che è vincente se domina. Questo è un problema. Le interviste agli stupratori mostrano che i colpevoli agiscono non in preda a un raptus erotico, ma per “rimettere le donne al loro posto”.
L’educazione avviene in ambito familiare e scolastico, ma anche in modo informale, per esempio attraverso i mezzi di comunicazione; tutti noi che partecipiamo a questo processo, formiamo le nuove generazioni. Quindi dobbiamo diventare più consapevoli e chiederci: come riproduciamo la società di domani, attraverso quali modello di rapporto? Come ci confrontiamo con le differenze? Facciamo finta che non ci siano o le consideriamo tutte?

In pratica, come si comunica l’aspetto positivo della differenza? Non basta dire: “Non fare il sessista!”
È proprio questa la posta in gioco. Finora noi uomini potevamo facilmente definirci in positivo: “Io sono quello che porta il pane a casa”, “Io gestisco la famiglia”, “Io difendo la mia terra”, ecc. Oggi è più difficile. Infatti per molti adolescenti maschi è più facile definire in negativo cosa vuol dire essere maschi: “Io non sono femmina”, “Io non sono finocchio” ecc. Attribuire tutta la negatività agli altri, a tutti quelli che non sono maschi ed eterosessuali, aiuta a definirsi in positivo. Da qui nasce oggi buona parte della misoginia e dell’omofobia.

Il rischio è sostituire al vecchio modello patriarcale un “nuovo maschio ideale”?
Sì, lo vediamo sui media più popolari ma anche in articoli e libri: la proposta dell’uomo dolce, il “mammo”, l’uomo che non è violento… quindi di nuovo un uomo che si definisce per quello che non è. Io penso invece che la sfida educativa sia mostrare tutti i possibili modelli: ognuno di noi ha un modo diverso di costruire e di mettere in scena la propria maschilità. Valorizzare la pluralità vuol dire mostrare agli uomini adulti di domani che il proprio modo di essere maschi va bene, che non c’è qualcosa che manca, altre “gare da vincere”, altre “donne da conquistare”, prima di arrivare a essere considerato “un vero uomo”. Ma perché affannarci, visto che in realtà questo ideale virile non è incarnato al 100% da nessuno sulla terra? Meglio piuttosto affermare altri piani: possiamo affermare che anche un uomo anziano è un “vero uomo”, che anche un uomo su una sedia a rotelle, un omosessuale… sono tutti, davvero, uomini, anche se non sono “IL vero uomo”…

Anche uno giovane, palestrato, che va in moto a bere una birra?
Assolutamente sì! La questione è riconoscere che anche l’immaginario “macho” è solo una delle forme possibili, che vanno tutte bene fino a che non si trasformano in imposizione di un modello unico, in un ideale normativo a cui tutti devono aderire.

Quanto è presente, tra gli uomini, questa esigenza di cambiamento?
Mentre le donne storicamente sono riuscite a creare un’aggregazione in quanto donne, un movimento, gli uomini hanno sempre avuto difficoltà a farlo. Perché non ne hanno avuto bisogno, ma anche perché il modello virile competitivo agisce sempre, crea necessità di primeggiare e quindi difficoltà ad affrontare molte cose tra uomini. Noi siamo abituati a stare insieme solo in ambiti ritualizzati: la partita, lo spogliatoio… L’idea di confrontarsi su queste cose tra uomini è estremamente difficile.

Dal sito www.noino.org – 23.11.2016

A COSA SERVE CHIAMARLO FEMMINICIDIO?
“A cosa serve chiamarlo femminicidio?” – continuano a chiedere alcuni e talvolta alcune – “La parola omicidio comprende già i morti di tutti i sessi”. Sarebbe un’obiezione vera solo se la parola “femminicidio” indicasse il sesso delle morte, laddove invece indica il motivo per cui sono state uccise. Una donna che perde la vita durante una rapina non è un femminicidio. Sono femminicidi solo le donne uccise perché si rifiutavano di comportarsi secondo le aspettative di ruolo che gli uomini e la società patriarcale hanno delle donne. Dire omicidio dice che qualcuno è morto, dire femminicidio dice anche il perché. Non bisogna stancarsi di chiarire questo passaggio, non così elementare come potrebbe sembrare fuori dai circuiti della pratica femminista e talvolta anche al loro interno. (…)
(…) il fatto che gli incidenti stradali in Italia uccidano ogni anno oltre 3.000 persone e ne feriscano circa 250.000 fa’ sì che l’insicurezza stradale venga percepita come un problema collettivo e si mettano in atto specifiche azioni preventive e sanzionatorie per ridurne la portata. Invece il numero relativamente ridotto delle morti dirette per femminicidio (…) genera un allarme sociale che può sembrare ingannevolmente acuto in prossimità di fatti di cronaca particolarmente efferati, ma che nella quotidianità è invece quasi inesistente.
(…) La prospettiva cambia del tutto quando si chiarisce che sotto il termine femminicidio non rientra solo quel terribile centinaio di donne morte, ma anche le pratiche di mortificazione a cui quotidianamente milioni di donne di questo paese vengono sottoposte senza che chi le mette in atto incorra nella stessa sanzione sociale causata dalla responsabilità di una morte fisica. (…)
E’ femminicidio anche il giudizio estetico e morale costante sui corpi e sulle scelte delle donne, che condiziona la qualità della vita fisica e psichica di tutte noi, in particolare le più giovani e fragili, meno strutturate per organizzare un salvifico dissenso.
Sei brutta, sei grassa, troia, come ti vesti, sembri una suora, sei piatta come una tavola, cagna, hai una bocca da pompini, obbedisci, sei volgare, sei maschiaccio, le vere donne non fanno questo, sorridi, sii gentile, vedi che parli troppo, stai zitta, cambiati, togli quella foto dal profilo, fatti filmare mentre ti spogli, dillo che sei mia. Ciascuna donna sente frasi di questo tenore decine di volte prima ancora di arrivare ai diciotto anni e spesso le accade senza che mai ella stessa possa capire che il femminicidio, prima e più che una morte, è una pratica di negazione e controllo. “Ti ammazzo” è la conclusione di un processo e diventa qualcosa di più di una minaccia solo quando tutte le altre parole e azioni hanno fatto il loro lavoro di annichilimento.

Michela Murgia – da “Il corpo del delitto”, suppl. de Il Manifesto 10.11.16, pagg 6-7 –
(il grassetto è redazionale)

 

NOI UOMINI A PALERMO CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Dal 2015 un gruppo di maschi ha iniziato a confrontarsi, in chiave autocritica ma anche propositiva, su un tema di attualità purtroppo crescente: la violenza sulle donne. L’idea è venuta da ben più radicate esperienze nel mondo e in Italia, ma arricchita da almeno due caratteristiche: la ricerca sperimentale di nuove forme di analisi (soprattutto con il supporto indispensabile di maschi delle nuove generazioni) e l’approfondimento dello specifico culturale meridionale di una patologia estesa nei cinque continenti.

L’assunto dell’iniziativa (che potrà concretizzarsi nelle modalità più opportune: associazione, movimento, aggregazione spontanea più o meno temporale…) è di intuitiva evidenza: la violenza inflitta alle donne è una questione maschile molto prima che femminile. Può essere esercitata mentalmente, psicologicamente, verbalmente, economicamente, sessualmente, corporalmente…: in tutti i casi, comunque, rivela arretratezza culturale e fragilità psichica nei maschi che decidono di infliggerla, più ancora che nelle donne che accettino di subirla.

Sarebbe da sciocchi concentrare l’attenzione intellettuale e sociale su questa tematica come se fosse l’unica, o anche solo la principale, piaga dell’umanità contemporanea. Noi vogliamo affrontarla come punto di vista, chiave interpretativa di un complesso ben più ampio di fenomeni spirituali, sociali e materiali che pregiudicano pesantemente la costruzione di un mondo più vivibile. “Tutto si tiene”: e l’atteggiamento interiore ed esteriore del genere maschile sull’altra “metà del cielo” suggerisce interrogativi via via più ampi e più profondi, dai diritti degli omosessuali allo sfruttamento sessuale e sul lavoro dei bambini e delle donne, dalla libera circolazione degli esseri umani sul pianeta alla prevenzione di conflitti mondiali, dal ruolo delle religioni in politica al ruolo della politica nell’economia.

Dal sito: http://noiuominiapalermo.altervista.org/

 

LA CITTADINA CHE HA SCONFITTO NESTLE’
(…) Sono sempre belle le storie di comunità che si organizzano e che combattono battaglie più grandi di loro e della speranza di vincerle. Ed è ancora più bello che qualche volta ci riescano. Questa storia si svolge in Oregon. In una piccola città di mille anime che si chiama Cascade Locks. Un posto tranquillo, un piccolo paradiso terrestre a sessanta chilometri da Portland, la capitale dell’Oregon e con visuali mozzafiato su monti e fiumi. E che fiumi. Non per niente si chiama Cascade Locks. Cascade sta per cascata e Locks sta a indicare una serie di barriere costruite sui fiumi tanti anni fa per migliorarne la navigazione. Il fiume principale si chiama Columbia River, è lungo quasi duemila chilometri e spinge circa sette milioni di litri d’acqua al secondo, dalle Rocky Mountains fino al Pacifico. Il fiume e i suoi tributari sono alimentati dalle nevi sul Mount Hood e dalle abbondanti piogge della zona.
Nel 2007 entra in scena la Nestlé, la ditta alimentare svizzera che produce un po’ di tutto e che in Italia è proprietaria dei marchi Acqua Panna e San Pellegrino. Il suo progetto? Imbottigliare e commercializzare l’acqua di uno degli affluenti del Columbia River che passa proprio per Cascade Locks, e che si chiama Oxbow Springs. La Nestlé voleva accaparrarsi più di cinquecento milioni di litri l’anno di quest’acqua e venderla in 1,6 milioni di bottigliette di plastica l’anno, sotto il nome di Arrowhead, consumata in massa qui negli Usa. Cosa poteva dire la Nestlé? Un po’ come i petrolieri: che avrebbero portato lavoro e soldi, che non sarebbe cambiato niente, che avrebbero costruito un impianto da cinquanta milioni di dollari per imbottigliare l’acqua, portando lavoro a cinquanta persone. Avevano anche il sindaco dalla loro parte e tutto il consiglio cittadino, ammaliati dalle promesse acquatiche della Nestlé, e dal fatto che la città non era proprio ricca e che nuovi di posti di lavoro sarebbero stati utili.
Ma né la Nestlé né i politici avevano fatto i conti con i residenti o con gli ambientalisti che in questo caso sono la stessa cosa. La gente, a Cascade Locks, si è arrabbiata e ha agito in modo costruttivo. Un gruppo iniziale di donne (sempre le donne!) ha dato l’allarme, ha studiato i progetti, e ha poi spiegato a tutti quello che sarebbe successo. E cioè che sarebbe aumentata la mole di plastica prodotta, che in città sarebbero passati duecento camion al giorno. Che l’acqua è di tutti e non della Nestlé e, in questi tempi di cambiamenti climatici, chi può dire se e quando verrà la siccità? Se e quando l’acqua diventerà cosi preziosa che sembrerà un delitto cederla alla Nestlé per profitto? E infatti, nonostante tutta quest’acqua, nel 2015 venne dichiarata una emergenza siccità proprio a Cascade Locks.
Gli attivisti hanno iniziato a tappezzare la città di cartelli, a protestare, a chiedere trasparenza. Hanno messo su un blog che si chiama semplicemente Keep Nestle Out. Hanno regalato acqua a chi veniva a visitare la città. Hanno girato dei video di sensibilizzazione, poi diffusi su internet, in cui ci si è opposti alla privatizzazione dell’acqua. La gente si è sentita tradita dal proprio governo, svendutosi alla Nestlé, e dal fatto che avrebbero tolto loro l’acqua per poi rivendergliela in bottiglia. Tutti si sono sentiti coinvolti: residenti, agricoltori, turisti e le vicine tribù di indiani che ritengono quell’acqua sacra. La notizia si è diffusa presto, specie fra altre città prese di mira dalle multinazionali dell’imbottigliamento. Il mantra degli attivisti è stato: se facciamo venire la Nestlé, come faremo mai a dire di no alle altre? E come possiamo chiedere ai nostri contadini di usare meno acqua quando la imbottigliamo per mandarla chissà dove e per il profitto di una ditta svizzera?
La Nestlé ha goffamente cercato di rispondere con i suoi contro-video e la sua contro-propaganda, ma, come per il petrolio in Italia, nessuno gli ha creduto. Gli attivisti hanno promosso ed organizzato un referendum in tutta la contea di Cascade Locks, che si chiama Hood River County. E il giorno 17 maggio 2016 si è votato. Quella che sembrava una battaglia impossibile di questo paesello di mille persone si è trasformata in una enorme vittoria: la Nestlé è stata bocciata con il 69 per cento dei voti. Negli Usa non esiste il quorum, ma qui ha votato il 68 per cento degli aventi diritto. È considerata una vittoria monumentale: numeri così alti raramente si vedono negli Usa, e sopratutto è un messaggio chiaro e forte: l’acqua è della gente e non della Nestlé. Cascade Locks è la prima cittadina, e Hood River County la prima contea statunitense, a vietare l’imbottigliamento di acqua locale a livello industriale. Daranno l’esempio e coraggio a molte altre città.
Questa storia mi ha ricordato la nostra storia d’Abruzzo, dieci anni fa, quando contro ogni speranza ci siamo opposti al Centro Oli dell’Eni ad Ortona. Nessuno di noi era un attivista. Tutti ci siamo sentiti partecipi e abbiamo voluto proteggere qualcosa che in un modo o nell’altro era emotivamente nostro. E, giorno dopo giorno, alla fine, abbiamo vinto noi. Vincere contro le multinazionali si può, ad Ortona come a Cascade Locks. Ci vuole solo pazienza, intelligenza, l’amore dentro.
Maria Rita D’Orsogna
Fisica e docente all’Università statale della California, cura diversi blog
(da comune-info newsletter@comuneinfo.net – 27.5.2016)

 

 

PENSIERI

Non voglio il comunismo; voglio vivere in una civiltà della vita, della pace, delle relazioni conviviali tra tutte le differenze. Ho cominciato a pensare questo qualche mese fa, alla notizia che la Cassazione aveva dichiarato prescritto il reato di strage ascrivibile alle fibre di amianto respirate a pieni polmoni da lavoratori e popolazione di Casale Monferrato. E ho cominciato a ripassare l’elenco: amianto, talco, zolfo, rame, oro, argento, coltan, petrolio… c’è qualche minerale che venga estratto senza causare malattie, distruzione e morte?
Non è colpa dei minerali, certo… e si potrebbe estrarli in tutta sicurezza se non fossimo succubi impotenti, quasi sempre consenzienti, di un’economia che non è pensata e gestita per la vita, per il benessere, ma solo per far soldi a qualcuno… e pazienza per chi ne paga il prezzo. Allora, oltre e sopra i padroni, la responsabilità somma è della politica, dei parlamenti e dei governi, dei partiti che li emanano, di gran parte della cultura e dell’informazione che li giustificano e li sostengono… e di ciascuno e ciascuna di noi che votiamo o ci asteniamo, che taciamo o ci voltiamo dall’altra parte…
Voglio un’industria, una campagna, una scuola, una sanità, un’assistenza… a misura di donne e di bambini/e, per essere a misura di tutti e tutte. La proprietà privata e il diritto a far soldi non sono valori assoluti a prescindere, ma diritti individuali a condizione di viverli nella solidarietà sociale e nella reciprocità.

Se c’è gerarchia, al vertice sta chi legifera e organizza la vita comunitaria; tutti gli altri e tutte le altre stanno sotto, si devono adeguare. Io, invece, credo che il posto che compete a ciascuno e a ciascuna sia in cerchio, alla pari con ciascun altro/a.

TG3 del Piemonte delle 20,30 di sabato 7 novembre 2015: un bel servizio sulla manifestazione di piazza della Caritas e dei vescovi di Piemonte e Valle d’Aosta contro la povertà assoluta è stato seguito a ruota da un altro servizio sugli “anni di piombo” a Torino. Se era studiata, questa successione dei due servizi sarebbe stata l’occasione per un ragionamento… ma nessuno l’ha fatto.
Io ho fissato sulla carta la riflessione che desidero condividere oggi con chi sta leggendo questa pagina. Facevo l’operatore sindacale e da subito ho/abbiamo condannato la lotta armata, perché faceva il gioco della repressione contro le lotte operaie e, quindi, dei padroni. La mia convinzione – e quella di tanti e tante – era ed è che la lotta di classe si deve fare in modo nonviolento. Al TG3 di quella sera nessuno l’ha detto, ma mi aspetto che i giornalisti sappiano fare queste semplici analisi: la povertà assoluta, il precariato, la disoccupazione, lo sfruttamento feroce di oggi sono frutto di quella borghesia padronale che allora aveva vinto, non contro i terroristi, ma contro operai e sindacati. A quello servivano Brigate Rosse & affini: ad autorizzare la repressione della ribellione di operai, contadini e studenti, che si stavano pericolosamente saldando.
Penso che sarebbe un buono stimolo formativo mantenere viva questa riflessione, ripensare alla nostra storia facendone davvero una maestra di vita…

Spot pubblicitario in TV del Ministero della Difesa: “Per la sicurezza del nostro Paese”. Penso che potremmo ragionare e studiare forme adeguate per la sicurezza delle persone, delle istituzioni, delle aziende… ma la sicurezza “del Paese” mi sembra linguaggio mistificante, buono solo per giustificare la competizione e la guerra. L’Italia è un “Paese” che ripudia la guerra come modo di affrontare i conflitti internazionali e, di conseguenza e per coerenza, dovrebbe radicare la propria sicurezza nella cooperazione e nella solidarietà.

Beppe Pavan

 

I TERRORISTI SONO FIGLI DEI NOSTRI EGOISMI

Nella storia fin dai tempi antichi l’uomo combatteva il suo nemico sapendo bene chi era…
Faccia a faccia davanti a sé, fosse anche un Golia.
Oggi persone plagiate, malate nella mente o nelle speranze, oppressi di ogni come,
decidono una cosa incomprensibile, storicamente nuova: UCCIDONO A CASO.
Ragazzi che vanno a scuola uccidono altri ragazzi, neri che uccidono bianchi, bianchi che uccidono neri.
Musulmani o presunti tali che uccidono cristiani o presunti tali. A caso…
Nella povertà di mezzi, di spirito, di animo, di speranze, di pensieri.
Povertà culturali, fame e inganni necessari per armare guerre di dominio di uomini su altri, di pochi su tutti.
I padroni hanno imparato a non avere faccia…
Quando non si riesce più a dominare con false leggi e vere prevaricazioni, ci si scopre all’improvviso buttati in guerra, in guerra d’armi.
Russi o Americani, inverosimilmente alleati per “la pace di tutti” nel turnarsi sugli stessi bombardamenti.
Aviazione siriana aviazione irakena aviazione iraniana aviazione israeliana aviazione giordana…
anche loro si alternano nelle bombe coerentemente solo alle rime.
E quelli che non hanno bombe intelligenti
hanno svuotati umani.

Da dove arriva il missile che ha lasciato una voragine in casa e ucciso mezza famiglia mia?
e tutto intero il futuro di una vita, condannando i superstiti alla pazzia e ad imbracciare le armi forse per sempre,
a morire maledetti, nell’odio del cielo?
Queste nella mappa del pianeta al vero minute guerre
incidenti di percorso di presunti sviluppi economici
inciampati: sul prezzo!
Chi è il deus ex machina? Quale paese quale multinazionale quale ricco quale padrone?
E mandante di tanto inutile criminale scempio?
…dinosauri nascosti…

L’ignoranza delle genti allevate, nei migliori casi, a telefonini calcio e televisione.

Il terrorista suicida omicida
il folle omicida suicida
sono offerti alla folla come testa del Male
Humus Inumano fertilizzato all’odio,
delle culture religioni censi razze pensieri colori…
Non più figli di nessun dio. Non hanno più dolore
avvolti nel fumo nero della trappola
e torturati da una vita priva di umanità per quello che provano
per quello che vedono…
Alla fine inumani veramente diventano!
Assaltano a caso i mulini a vento
che trovano per strada
che sono di volta in volta però veri bambini passanti donne compagni di scuola
il bianco il nero
e quanto di più veramente innocente si possa ancora trovare… in questo mondo.
Indotti a Confondere mortalmente i colori di pelle o i diversi nomi del Signore .

I VERI ASSASSINI
I VERI INUMANI
sono “I DINOSAURI”
La classe dirigente politica economica religiosa
che volontariamente organizza un mondo “mancante…”
mancando adeguate cure per le persone malate nella loro mente.
Adeguate scuole
Adeguate dignità
Adeguati futuri
Adeguati insegnamenti al rispetto tra culture e religioni differenti…

Come chi diceva che l’incidente dei treni in Puglia è anche e soprattutto colpa della corruzione del malaffare
che nascostamente omettono truffano rubano… amministrando non per il bene comune,
portando ad avere situazioni misere che favoriscono, se non proprio determinano in toto, questo incidente.
Ma anche la luce per la vita di tutti di ogni giorno.

Nello stesso modo questi terroristi figli folli e violenti
sono lo sfrido l’imperfezione
di un sistema sociale culturale volutamente parassitario
fatto per ingrassare un branco di dinosauri e far solo sopravvivere le genti
in vite insignificanti o peggio.

Siamo tutti colpevoli, pochi sono gli innocenti,
e ci sono colpevoli molto più colpevoli
di chi si sporca le mani di sangue.

Oggi tutti capiamo che il capostazione che ha alzato la paletta verde uccidendo 23 persone
non è il colpevole unico.
Anzi…
Ma nessuno sembra voler capire che i terroristi assassini
malati mentali o malati di incultura
plagiati resi inumani dai nemici e dagli amici
alla fine è vero: non sono figli di dio, di nessun dio

SONO FIGLI DEI NOSTRI EGOISMI
SONO FIGLI NOSTRI
Antonio Mignone
CARCERE E SISTEMA CAPITALISTA

Da quando ho conosciuto Vincenzo Andraous – ergastolano educatore – e Mario Dumini – l’eremita di S. Vittorino sui colli romani – ogni volta che incontro persone che riflettono sul sistema carcerario mi fermo ad ascoltarle con attenzione. E’ stato così anche con Augusto Cavadi, che è venuto a Torino per una conferenza e abbiamo invitato a Pinerolo per ascoltare la sua esperienza raccolta in un libretto intitolato “Filosofare in carcere. Un’esperienza di filosofia-in-pratica all’Ucciardone di Palermo”.

Un Gruppo Uomini un po’ speciale

E’ l’emozione forte che mi ha accompagnato durante la lettura del “libretto” di Cavadi. Provo ad offrirvene un piccolo assaggio dal cap. 3: “Chiediamo in cosa consista per ciascuno di loro il senso della vita e la risposta è pressoché unanime: ‘La famiglia e la libertà’. Per ‘famiglia’ si intende una compagna, ma soprattutto dei figli: ed è per evitare che i figli possano soffrire e fare errori che alcuni dichiarano di essersi esposti al rischio della galera (e, dunque, al rischio di perdere la ‘libertà’). Per noi ‘esterni’ non è facile capire: il reato come atto di amore nei confronti di altri (dei ‘propri’, quasi che gli extra-familiari non fossero ‘altri’ con gli stessi diritti e gli stessi bisogni dei ‘propri’). Forse c’è qualcosa da chiarire sull’idea di ‘amore’…
Qualcuno ha detto che nella vita bisogna sopportare ‘alti e bassi’. E’ scaduto il tempo a nostra disposizione, la guardia riapre la porta. In extremis, allora, racconto una storiella sul marito che chiede il divorzio dalla moglie perché anche lei, nella vita, ha conosciuto ‘alti e bassi’ ma… ‘se li è fatti tutti’. Poiché i presenti ridono di cuore mi conforto: la prontezza nel cogliere l’umorismo è il test migliore che conosca per misurare la reale intelligenza di un interlocutore. (…)
Usciamo dall’aula sinceramente allegri. La guardia di turno lo nota e ci chiede: ‘Ma che gli avete fatto ai detenuti?’. Evidentemente non è usuale. Ma io che avevo letto i libri del mio amico Giuseppe Ferraro, pioniere della filosofia con carcerati, non mi stupisco:

Anche quando entrai in quella stanza dalle finestre inferriate e ci sedemmo in circolo come da anni, era sempre la prima volta di tante che erano state uniche. Stavamo bene insieme. Non era un’ora d’aria quella. Era il tempo senza ore della libertà in prigione. Chi avesse sentito le nostre voci da fuori, lungo il braccio del corridoio, avrebbe pensato a una felice compagnia di amici. (G. Ferraro, Imparare ad amare, Castelvecchi, Roma 2015, p. 26)”

E dal cap. 11: “E’ il penultimo incontro. (…) Tra l’altro avevamo anche chiesto ai nostri interlocutori di preparare per oggi un proprio bilancio dell’esperienza. Neanche gli interventi a braccio su questo bilancio sono particolarmente significativi, tranne uno: ‘Devo o non devo accettare il rischio di un rapporto di coppia? Prima ero sicuro di no, ma con queste conversazioni mi avete messo in crisi’. Infatti solleva uno scambio interessante concettualmente: ‘Perché temi tanto di essere tradito?’. ‘Perché io sono il primo a tradire la partner se ho l’occasione di baciarmi con una che mi piace’.
La gelosia, che apparentemente si dà come mancanza di fiducia nell’altro, più in profondità si rivela come scarsa fiducia in se stessi. Alcuni dei presenti, facendo riferimento alla propria esperienza personale, dichiarano che – proprio per questo – la gelosia cessa o si attenua quando, essendo noi stessi davvero innamorati dell’altro, ci avvertiamo spontaneamente propensi alla fedeltà: e, perciò, ci diviene pensabile la fedeltà altrui nei nostri confronti. Un po’ come il ladro che teme di essere derubato, almeno sino a quando non smette lui stesso di attentare alla roba altrui”

 

Donna, nera e comunista

Con la stessa attenzione ho letto e conservato un articolo di Davide Angelilli che, su Il Manifesto del 13 febbraio scorso, dava conto dell’intervento di Angela Davis a Bilbao, qualche giorno prima, nel corso di “tre giornate organizzate da diverse organizzazioni della sinistra indipendentista basca per parlare di prigionieri politici e carcere da una prospettiva abolizionista e femminista”. Di Angela Davis quelli/e della mia generazione si ricordano bene: “donna, nera e comunista” è stata una protagonista delle lotte della popolazione nera contro il segregazionismo negli USA: “Ha scelto con il tempo di concentrare il suo estro rivoluzionario alla elaborazione di una critica femminista del sistema carcerario, mettendo il suo lavoro e carisma intellettuale al servizio di diverse campagne internazionali per la liberazione dei prigionieri politici. (…) Pensare e proporre di abolire il sistema carcerario ci impone di prendere molto seriamente l’anticapitalismo, l’antirazzismo e l’antisessismo – dice. (…)

Una connessione perversa

Ha fatto notare che pur rappresentando solamente il 5% della popolazione mondiale, negli Stati Uniti vi è il 25% della popolazione mondiale incarcerata. Ad oggi sono duecento mila le donne rinchiuse nel regime carcerario nordamericano, cifra che quaranta anni fa rappresentava il totale della popolazione detenuta, e che oggi rappresenta un terzo delle donne in stato di detenzione a livello globale. (…)
Le carceri statunitensi [sono] macchine (di proprietà privata) per la privazione di diritti civili (le statistiche dicono che quasi sei milioni di cittadini hanno perso il diritto al voto per un processo penale); macchine economiche per l’accumulazione di ricchezza mediante la spoliazione delle comunità latine e afroamericane (…) Ma il carcere è anche il luogo dove la violenza intima, quella sessuale, s’incontra con la violenza statale perché è commessa dallo Stato stesso. (…)
E l’ideologia del terrorismo sta alimentando islamofobia e razzismo oramai in tutto il Nord del mondo, criminalizzando le comunità subalterne e generando nuova linfa per un sistema repressivo globale basato sulla vendetta e il castigo. Allora il modello penitenziario statunitense altro non è che il pezzo centrale di un ingranaggio globale. Una macchina sempre più privatizzata che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali del sistema capitalista, rinchiudendo e castigando i soggetti sociali che queste contraddizioni le soffrono sotto forma di molteplici oppressioni.

Un nuovo paradigma

Per rompere questo ingranaggio globale – ha chiarito Angela Davis – ci vuole una proposta complessa e profonda che agisca sulle sue radici strutturali, una proposta per la democrazia radicale, per il socialismo.

(…) Dobbiamo unire la causa dei prigionieri politici baschi con quella dei palestinesi. Inserirla dentro una critica integrale e radicale alle fondamenta di violenza e oppressione razziale, di classe e di genere, su cui si poggiano le nostre società e le nostre carceri – ha spiegato aprendo le braccia l’intellettuale femminista. Che aggiunge: Dobbiamo dire ai giovani che il capitalismo si può superare, affinché le prossime generazioni possano continuare a credere in un’alternativa a questa società basata sulla violenza”.
bp

DO NOT AGONIZE: ORGANIZE!
«È nostro dovere, scriveva Virginia Woolf in Le Tre Ghinee, pensare: che società è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie e perché dovremmo prendervi parte?». Non dobbiamo mai smettere di chiederci che prezzo siamo disposte a pagare per fare parte di questa civiltà e delle istituzioni al maschile che la sostengono. Queste parole risuonano oggi con rinnovato vigore.
Bisogna sempre pensare contro il proprio tempo, soprattutto ora che ci troviamo a raccogliere i pezzi di un sogno infranto: la prima donna eletta alla presidenza degli Stati Uniti. Come ha scritto Donna Haraway su Facebook: «Sì, ho pensato che avremmo lottato insieme nel contesto dell’amministrazione neoliberale e parzialmente progressista di Clinton. Ho pensato che il cambiamento climatico e l’estinzione e tante altre cose sarebbero rimasti temi centrali. Devono esserlo ancora. Ma ora dovremmo unirci per combattere fascismo, razzismo scatenato, misoginia, antisemitismo, islamofobia, anti-immigrazione, e molto altro. Sento il cuore spezzarsi e ri-radicalizzarsi».
Sì, la parola chiave è ri-radicalizzarsi – superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica.
Derrida, d’altro canto, ricorda il carattere suicida della democrazia. Partirei dalla consapevolezza che la democrazia in sé non ci salverà, non in una fase storica di ascesa di nuovi populismi. Negli anni Trenta del XX secolo, l’epoca di Virginia Woolf, si è votato «democraticamente» per i partiti nazional-socialisti, che hanno poi affossato le libertà più basilari e commesso immani atrocità. La ripetizione di questi fenomeni induce a chiedersi perché la democrazia rappresentativa non sia capace di sviluppare anticorpi verso gli elementi reazionari. Penso ovviamente all’uso strumentale che del referendum è stato fatto in Gran Bretagna, Olanda e Italia.
La vittoria di un misogino, incapace, maschilista e pericoloso razzista quale è Trump rende più che mai evidente la vulnerabilità e i limiti della democrazia rappresentativa. Assistiamo a un re-imporsi delle retoriche razziste della politica dell’emergenza e della crisi, Trump ha marciato proprio sul senso di insicurezza diffuso tra le classi meno abbienti americane. All’alba del Terzo millennio Bush aveva una strategia simile. Certo il ritorno in auge del populismo presenta importanti elementi di novità, da indagare con urgenza.
Tutti i populismi – che siano di destra o di sinistra – si equivalgono. A destra, gli appelli astratti alla nozione sacralizzata di autenticità culturale hanno sostituito le retoriche del sangue e del suolo. A sinistra, le classi devastate da declino economico e austerità hanno autorizzato l’espressione pubblica della rabbia dei bianchi per lo più uomini: whitelash, colpo di ritorno dei bianchi.
Comportandosi come un’etnia urbana in pericolo di estinzione, producono forme virulente di populismo ultra-nazionalista. Fanno del loro senso di vulnerabilità un vero cavallo di battaglia, come se le sole ferite che contano fossero le loro. Queste ferite inflitte alle classi più vulnerabili sono state interpretate come disincanto politico post-ideologico, ma non si può dire che il populismo di sinistra non sia altrettanto misogino e xenofobo. Io mi oppongo fermamente ad entrambe le versioni: tutti i populismi ruotano attorno al perno della supremazia maschile e della bianchezza. Basti considerare il sostegno entusiasta che un intellettuale come Žižek ha prestato a Trump nei giorni cruciali prima delle elezioni americane. La misoginia di Žižek è nota, tuttavia stavolta si è svenduto alle destre e dovrebbe essere ritenuto responsabile per una tale deriva.
Certo, la sinistra ha enormi responsabilità: è anche grazie agli errori dei precedenti leader e delle vecchie coalizioni «democratiche» che i repubblicani hanno vinto. D’altra parte, il populismo di destra di personaggi quali Trump e Johnson è una forma così palese di manipolazione da risultare nauseante, si esercita sulle persone più colpite da ristrettezze economiche. Questi manipolatori usano i/le migranti e tutte le soggettività «altre» come capri espiatori.
Appellarsi a tali leader nazionalisti significa riprodurre quello che Deleuze e Guattari chiamavano micro-fascismo. E i micro-fascisti sono a destra tanto quanto a sinistra.

Sul piano filosofico, non posso fare a meno di interpretare queste elezioni attraverso il Nietzsche di Deleuze: siamo nel regime politico della «post-verità», alimentato da passioni negative quali risentimento, odio e cinismo. In quanto docente ritengo che il mio compito risieda nel combattere con gli strumenti critici del pensiero, dell’insegnamento, ma anche della resistenza politica: non solo nelle aule, ma nella sfera pubblica.
In quanto filosofa ritengo necessario portare avanti una critica dei limiti della democrazia rappresentativa, a partire dallo spinozismo critico e dall’esperienza storica dei femminismi. Non possiamo fermarci all’antagonismo, non è sufficiente la fede nella dialettica della storia, dobbiamo elaborare una politica dell’immanenza e dell’affermazione, che richiede cartografie politiche precise dei rapporti di potere dai quali siamo attraversate/i. Abbiamo bisogno di ri-radicalizzare in primis noi stesse/i.
Nel mio lavoro ho sempre sostenuto che l’afflizione e la violenza conducono all’immobilismo, non sono foriere di cambiamento. All’indomani della vittoria di Trump ne sono ancora più convinta: occorre mettersi alla ricerca di forme di opposizione costituenti, capaci di dar vita a politiche concrete. Non nego che il processo in corso sia doloroso e difficile. Tuttavia, come ha sostenuto Hillary Clinton, la rabbia non è un progetto, va trasformata in potenza di agire, organizzata, indirizzata non solo «contro», ma anche «per».
Risulta chiaro a tutte/i che Trump è il baratro di negatività della nostra epoca, che avevamo bisogno di tutto meno che della sua vittoria. Mi permetto però di chiedere: e poi? Siamo contro l’alleanza tra neolibersimo e neofondamentalismo che Trump oggi, come Bush ieri, incarna a pieno. Dobbiamo però accordarci su cosa vogliamo, cosa desideriamo costruire insieme come alternativa. Dobbiamo capire chi e quante/i siamo «noi».
La risposta, e la reazione a questi fenomeni, passa attraverso la composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise e situate. Quello delle passioni negative non è il linguaggio che propongo come antidoto all’avvelenamento dei nostri legami sociali. Pertanto mi chiedo: siamo capaci di immaginare pratiche e teorie politiche affermative, di creare orizzonti sociali di resistenza? Di che strumenti ci dotiamo per non arrenderci al nichilismo e all’individualismo?
Abbiamo dalla nostra parte parte potenti etiche politiche: da Spinoza a Haraway, da Foucault a Deleuze. Abbiamo pratiche all’altezza della sfida: dalle Riot Grrrl alle Pussy Riot, passando per le cyborg-eco-femministe e le attiviste antirazziste e antispeciste, innumerevoli irriverenti e cattive ragazze rivendicano autodeterminazione, creano nuovi immaginari e nuove forme di affettività. Muse ispiratrici per modelli di soggettività alternativi a quelli costruiti sull’isolamento, queste cattive ragazze ci insegnano che le modalità di resistenza alle violenze e alle contraddizioni del presente viaggiano di pari passo alla creazione di stili di vita in grado di sostenere i desideri di trasformazione.
Forse in Italia vedremo questa potenza politica nelle piazze il 26 novembre. Ed è forse giunto il momento che la sinistra impari dal pensiero e dalle pratiche femministe, dai movimenti antirazzisti e ambientalisti. È inaccettabile che nel 2016 come nel 1966 i sedicenti intellettuali di sinistra sminuiscano il portato delle nostre lotte riducendole a politiche identitarie. È tempo di ri-radicalizzare la sinistra mostrandole gli effetti del suo stesso sessismo e della sua negazione della politica affermativa femminista.

Rosi Braidotti, 11.11.2016 (traduzione di Angela Balzano)
© 2016 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

 

Un film: IO DANIEL BLAKE di Ken Loach
Accade, è accaduto nella nostra vita, di incontrare, talvolta di incappare in un libro, una canzone, una situazione, una persona, che nel mezzo dei nostri tentativi di capire e dare un ordine alle cose, ai nostri pensieri ed emozioni, accade, dicevo, un momento in cui tutto diventa chiaro, limpido, luminoso, ad indicarci la direzione verso cui finalmente vogliamo dirigerci, e per le cose per cui vogliamo continuare a lottare.
Questa volta è un film: Io Daniel Blake di Ken Loach. Spero di trovare le parole per motivarvi a cercarlo e andare a vederlo. Un film dolce, tenero e duro, durissimo, splendente come può essere un diamante. Una specie di compendio di storia contemporanea, quasi il punto di sintesi dei tempi che stiamo vivendo.
La storia racconta di un uomo, quasi alla fine della sua carriera lavorativa ma non ancora con i requisiti per la pensione, che a seguito di una malattia improvvisa, un infarto, non può più lavorare e si rivolge alle strutture, al “sistema” – lo chiamiamo welfare – per continuare ad avere mezzi di sussistenza.
Molto spesso in film di denuncia i personaggi sono tratteggiati un po’ incapaci, marginali, borderline, con i quali è difficile identificarci. Invece in questo film si parla di un uomo perfettamente realizzato, capace di creatività nel suo lavoro, aperto ai sentimenti e alle emozioni proprie ed altrui. Si è occupato di accompagnare fino alla fine la sua compagna, si sorprende per la creatività un po’ confusionaria dei giovani che lo circondano, si lascia intenerire dai bambini con cui viene in contatto… insomma, una persona vera, autentica, che nel momento del bisogno chiede aiuto al “sistema”.
Non racconto oltre della storia, affinché abbiate il piacere di lasciarvi trasportare dal racconto che ne fa il regista (di cui forse alcuni di chi legge ricorderà “Family life” dei lontani anni ’70), senza pietismi e con lucidità, come un sistema sociale possa diventare insensibile e crudele nei confronti di chi lo ha sostenuto con il suo lavoro e la sua vita.
C’è anche dell’altro, naturalmente: personaggi, situazioni, momenti, ecc. Ma spero che quanto hoprovato a raccontare vi stimoli e vi motivi ad andare a cercare questo film, ad andare a vederlo, tra l’altro premiato con la Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes 2016.
Arcangelo Vita

 

… E UNA LETTERA
Buonasera,
Sono Pietro Manduca, ho ricevuto la Vostra email tramite Alberto Bassani. Purtroppo la sera del dibattito sulla cultura non ero presente per impegni lavorativi, al mio posto c’era il nostro capolista Stefano Nangeroni. Mi spiace che il moderatore non abbia concesso la possibilità di rispondere perché credo, innanzitutto, che qualunque domanda giunga durante un confronto debba essere presa in considerazione. Inoltre, la ragione della sostanziale esclusione della domanda (“esula dal pinerolese”), riletta nero su bianco, risulta stonata. Certo l’intento era quello di considerare la questione come tema globale e non territoriale, ma a nessuno di noi sarebbe venuto in mente, in un dibattito pubblico fra i candidati sindaci, di dare una risposta simile se qualcuno avesse posto ad esempio il tema del lavoro, questione identicamente globale e non strettamente territoriale. Già questa semplice considerazione ci rende evidente quanto lavoro ci sia da fare sul tema.
Per quanto mi riguarda, considerando importante affrontare la questione posta nella domanda, posso dire che certo Pinerolo, come tutto il nostro paese e non solo, è imbevuta di cultura patriarcale. Anzi forse negli ultimi anni paradossalmente questa si è fatta ancora più forte perché, nel senso comune, è data ormai sostanzialmente per acquisita una “parità” fra i generi, modellata però sul modello maschile. Il problema è al massimo nei numeri: “le donne in ruoli tradizionalmente maschili sono ancora troppo poche”. Dunque non si mette in discussione il modello della società patriarcale, quello è dato, è vissuto come “oggettivo”. Come lo sono anche l’organizzazione sociale, quella economica, le scelte politiche e le pratiche che ne conseguono. Credo che sul tema sia necessario un lavoro culturale profondo e sono convinto che si tratti di una battaglia di liberazione per tutti e tutte.
Come gruppo siamo interessati a confrontarci con chi, come Voi, va da tempo facendo ricerca e riflessioni sul tema, consci che, anche a sinistra, il dibattito sul superamento della cultura patriarcale e della società che da quella cultura discende sia, soprattutto in questi ultimi anni, assolutamente insufficiente e troppo spesso marginalizzato. Dal confronto crediamo possano nascere idee da sviluppare sul territorio e, se ne avremo la possibilità, nel contesto amministrativo.
Grazie per aver riproposto la domanda.
Pietro Manduca, candidato sindaco per Sinistra Solidale

 

 

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Cicl. in proprio c/o ALP, Via Bignone 89 – Pinerolo