L’ironica provocazione del calcio femminile.
Leggendo Giocare con le tette, un agile e gustoso libretto che racconta una “storia al femminile del calcio”, si capisce come le infelici dichiarazioni di Felice Belloli e Carlo Tavecchio siano soltanto la punta di un iceberg che declina lo sport più popolare del mondo solo al maschile, oltre ad essere farcito di una serie di beceri luoghi comuni condivisi dalla maggioranza silenziosa, l’uomo qualunque della strada.
E allora, in vista della finale di Champions League femminile che si disputerà il prossimo 26 maggio a Reggio Emilia, un’anonima (o anonimo?) scrittrice/tore ha recapitato nella cassetta delle lettere della Fondazione per lo Sport del Comune di Reggio Emilia una busta contenente una chiavetta usb con l’invito a pubblicarne il contenuto in un libro il cui ricavato possa finanziare una campagna a favore del calcio femminile. La Fondazione per lo Sport di Reggio Emilia, ente che riunisce associazioni sportive dilettantistiche, soggetti del terzo settore ed è partecipata dal Comune stesso e dal Coni, non si è fatta pregare ed ha pubblicato il libro sulla fiducia. E quindi si scopre che le “quattro lesbiche che vogliono soldi”, evocate dal presidente della Lega nazionale dilettanti Felice Belloli, non godevano di gran considerazione nemmeno all’inizio del Novecento. Ad esempio, sotto il fascismo, Il Littoriale – così nel triste Ventennio era stato ribattezzato il Corriere dello Sport – dedicava buona parte delle sue forze a scoraggiare le donne dal gioco del calcio, polemizzando con alcune delle sue lettrici desiderose di scendere in campo: “Giuoco del calcio dunque, sì, ma per puro diletto con moderazione”, sosteneva il quotidiano, pubblicando l’opinione del fascistissimo medico Nicola Pende di Genova, primo rettore dell’Università Adriatica Benito Mussolini. Del resto, ben prima del fascismo, nel 1909, Guido Ara, centromediano della Pro Vercelli, aveva pronunciato la storica frase, tuttora di moda: “Il calcio non è uno sport da signorine”.
Tornando alla nostra epoca, evidenzia l’anonima/o autrice o autore del libro riprendendo quanto scritto da Artemio Scardicchio nel suo Storia e storie del calcio femminile (Lampi di Stampa Editore 2011), “i campi di calcio a 11 sono quasi sempre comunali e quindi… utilizzabili in egual modo da squadre maschili e femminili”, ma ad essere di troppo sono sempre le formazioni femminili, che devono farsi da parte per non rovinare a quelle maschili il manto erboso. E allora, purtroppo, non sorprendono le parole di Katia Serra, ex giocatrice della Nazionale e responsabile donne dell’Associazione Italiana Calciatori, che racconta di colleghe messe fuori squadra perché incinte, o costrette ad essere sfrattate perché la società di appartenenza aveva smesso di pagare loro l’affitto e comunque confinate al dilettantismo forzato. Come dire, le donne possono giocare al calcio solo come diletto, nel Ventennio come oggi, ma non dedicarvisi come professione. Il calcio femminile è stato sempre considerato come un fenomeno folkloristico, oggi come sessanta anni fa, e così, come evidenzia Carlo Ancelotti nella sua intervista rilasciata alla giornalista del Fatto Quotidiano Elisabetta Reguitti nella postfazione del libro, “in Nord America il calcio femminile è uno degli sport più praticati dalle ragazze a partire dalle scuole”, da noi siamo rimasti alla mentalità degli anni Cinquanta, ben raccontata dall’anonima/o che riprende un episodio raccontato da Giovanni Di Salvo nel suo libro Quando le ballerine danzavano con il pallone. Storia del calcio femminile con particolare riferimento a quello siciliano (Gea Edizioni, 2012). Le ragazze che scesero in campo nell’immediato dopoguerra al Cibali di Catania erano quelle della compagnia di operetta “Balletto Mercedes Fleurville Brillarelli”, che incrociarono i tacchetti con maschi del Calcio Club Catania. Insomma, le donne che giocavano a calcio al massimo potevano fare avanspettacolo, come era accaduto anche alla Favorita di Palermo, dove le ballerine del Teatro dell’Opera di Roma, in tournée in Sicilia, avevano già affrontato altre formazioni maschili e femminili. E invece, con buona pace di Belloli e del suo compare Tavecchio, il presidente della Figc noto per la sua uscita razzista (“noi diciamo che Optì Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”), attualmente in Italia giocano a calcio dodicimila atlete, di cui tremila nei campionati nazionali e ottomila nel settore giovanile.
“Ma come si fa a giocare con le tette?” è la domanda provocatoria che ricorre nel libro e che si pone l’universo maschile, abituato ad associare il calcio alle donne solo per parlare delle wags (wives and girlfriends of sportsman, il termine è stato coniato dai tabloid inglese). Se pensiamo che al termine della finale dei campionati del mondo di calcio femminile (disputati, beninteso, in via informale) del 1970 tra Danimarca e Italia, giocata al Comunale di Torino, il pubblico invase il campo andando a caccia degli indumenti delle danesi, si capisce come mai fino ai giorni nostri il calcio femminile abbia goduto, nel migliore dei casi, di scarsissima considerazione, per non dire di forti pregiudizi a cui tuttora deve far fronte.
In definitiva, il libro ha il merito, con una serie di riflessioni talvolta colte e talvolta ironiche, di raccontare la storia della società italiana attraverso episodi di costume narrando le difficoltà quotidiane a cui non solo è andato incontro il calcio femminile, ma, più in generale, la percezione del genere femminile nel nostro paese.
David Lifodi (dal blog “la bottega del barbieri” del 2.3.16)
“GIOCARE CON LE TETTE” di Anonimo – a cura di Milena Bertolini, presidente della Fondazione per lo Sport del Comune di Reggio Emilia – pagg. 109 – Aliberti compagnia editoriale, 2015, Reggio Emilia