Come sfamare il nostro immaginario deperito?

Riane Eisler nel suo libro Il piacere è sacro teorizza che competizione e collaborazione sono entrambe potenzialità insite nella natura umana. Alcune culture hanno istituzionalizzato la prima, altre la seconda. Si può quindi scegliere quale tipo di cultura tessere. E si può consecutivamente decidere che valore attribuire e quale distribuzione operare delle risorse fondamentali per l’umanità, il cibo in questo caso.
Come possiamo quindi sfamare il nostro immaginario deperito? Occorre tornare a prima che la natura diventasse la cosa morta da sfruttare che è oggi. Prima anche del suo essere matrigna. Occorre tornare a narrare la Madre, vivente. Occorre riprendere a nutrire questo archetipo di altri, nuovi, significati. Man mano che l’archetipo sarà nutrito, l’archetipo stesso tornerà a nutrire l’umanità in un proficuo e collaborativo scambio.

Madre, d’accordo. Ma quale?
Prima di proseguire e per non incappare in malintesi che possono insorgere quando si parla di “Madre”, è di fondamentale importanza aprire una digressione sul significato che si vuole attribuire a questo termine.
L’archetipo antico della Grande Madre ha subito negli ultimi 5.000 anni circa un processo di smembramento: da un’ipotetica e complessa unità, alcune parti sono state mutilate, totalmente demonizzate e infine scartate, come degne nemmeno di essere prese in considerazione. È il caso, ad esempio, dell’erotismo femminile come energia vitale e fonte di piacere, ancora rappresentato con vergogna nell’immaginario collettivo.
Ciò che è rimasto della sua antica unità è stato a sua volta riassorbito da un sistema di pensiero duale dicotomico (ancora corrente): un aspetto “buio”, già citato, di “matrigna cattiva” proiettato negli aspetti ritenuti controversi e difficili della natura; e un “luminoso” secondo aspetto, idealizzato da uno sguardo androcentrico, che si riferisce invece alla “buona natura” proiettata in un ruolo materno che è diventato modello patriarcale per le donne madri nel sistema sociale, da numerosi secoli ad oggi (…). Un ruolo che è stato e ancora per qualcuno è pretesto, “per legge divina o naturale”, di oppressione nei confronti della donna il cui compito è stato ridotto alla mera riproduzione, con la conseguenza di dover soffocare ogni “peccaminosa” aspirazione all’agire sociale.
Un ulteriore passo liberatorio può compiersi solo se si fa lo sforzo di uscire dalla tirannia dei significati che il pensiero patriarcale conserva su questo modello dualista di natura. Questa appena descritta non è la Grande Madre che vogliamo narrare. Questa “madre” è la madre ideale di un’organizzazione sociale che vuol mantenere la sua stabilità attraverso un sistema di dominio su parte degli esseri viventi che ne fanno parte. Ed è già stata narrata a sufficienza.
La stessa maternità biologica può e deve arricchirsi di differenti significati, che non devono mai più essere visti in antitesi con la scelta di non avere figli: perché anche questa è una falsa contrapposizione che è dipesa solamente dal fatto di adottare un sistema di pensiero duale.

Rompere gli schemi del pensiero duale
La Grande Madre in sé sintetizza ogni illusoria dicotomia come ben si può scorgere nell’antica preghiera a Iside, rinvenuta in Egitto, risalente al III-IV sec. A.E.C:

“Perché Io sono la Prima e l’Ultima. Io sono la Venerata e la Disprezzata. Io sono la Prostituta e la Santa. Io sono la Sposa e la Vergine. Io sono la Madre e la Figlia. Io sono le braccia di mia Madre. Io sono la Sterile, eppure sono numerosi i miei figli. Io sono la donna sposata e la nubile. Io sono Colei che dà alla Luce e Colei che non ha mai partorito. Io sono la consolazione dei dolori del parto. Io sono la Sposa e lo Sposo. E fu il mio Uomo che nutrì la mia fertilità. Io sono la Madre di mio Padre. Io sono la sorella di mio marito. Ed Egli è il mio figliolo respinto. Rispettatemi Sempre. Poiché Io sono la Scandalosa e la Magnifica”.

La Madre che vogliamo ri-narrare (rinarrare), prima di ogni cosa, è complessità ed è scelta. La Grande Madre valorizza l’agire e, anzi, vive anche nelle azioni di ogni sua figlia e figlio, tutte e tutti chiamati in egual misura a compartecipare al Grande Ricamo sempre in corso, che ha ovviamente anche una dimensione sociale.
A questo punto, ancora più importante è sottolineare che la Madre non si narra solo per l’universo femminile. L’archetipo di madre che va ri-membrato riguarda l’intero genere umano, compresi gli uomini. Il compito materno diviene quindi sfaccettato, rompe gli schemi classici cui siamo abituate, e può essere distribuito a ogni essere attraverso ogni differente agire. L’azione può essere biologicamente creativa, oppure no. Quindi la maternità biologica non va necessariamente rigettata: il senso di mancata libertà che deriva dall’essere madri qui ed oggi, nonché la difficoltà a conciliare davvero troppi aspetti della propria vita, sono dovute alla peculiare organizzazione familiare che non consente una serena coesistenza di più ruoli e identità. Non usciremo dal pensiero e dall’organizzazione patriarcale rifiutando re-attivamente la maternità: agiremo solo secondo le medesime regole del gioco che ci è stato imposto, all’interno del medesimo sistema, operando solamente un ribaltamento della vecchia attribuzione di valore alla donna con figli come “bene” versus la donna senza figli come “male”, ma di fatto conservando la dicotomia. In quest’ottica inoltre, la maternità resterebbe una “maledizione”, la punizione scagliata per l’antica disobbedienza al Dio maschio. Col risultato che saranno poi le donne che hanno desiderato diventare madri per scelta (esperienza che accade ed è anche comune, faremmo meglio a tenerne conto) e quelle che rivendicano il diritto ad avere l’ultima parola sulla significazione della loro capacità generativa a ribellarsi contro un pensiero che si propone di rappresentare e difendere la totalità dell’universo femminile.
Un esempio di organizzazione sociale in cui la Madre è ancora narrata, è quello dei Moso, in Cina. I clan familiari sono predisposti così che i figli possano essere gestiti in modo comunitario, sia dalle donne che dagli uomini del clan (solitamente non il padre biologico del bambino bensì lo zio) e le donne hanno totale libertà di scelta. È comunque consuetudine per i Moso non essere troppo prolifici, proprio per dare modo alle madri di occuparsi liberamente delle attività che desiderano portare avanti. In questa cultura la maternità è un concetto che ha molto valore e appare ben differente da quello presente in occidente. Sono gli stessi appartenenti alla cultura moso ad autodefinirsi con la parola “matriarcato”, nel significato di “all’origine le madri”. Quando la Madre sta “all’origine” della cultura, “origine” nel duplice senso di genesi temporale e genesi di significati, il suo volto si esprime attraverso i volti di tutti i suoi membri: maschi e femmine, bambini e anziani (su questi temi leggi anche All’inizio le madri di Luciana Percovich e Tracce di mutualità nella storia di Daniela Degan, ndr).

Solo dopo aver specificato quali differenti ingredienti può offrire questo archetipo, è possibile continuare a esplorare alcune delle pietanze che ne possono derivare. Un pianeta che è sentito come Madre viva, come casa, è un pianeta che è significato come importante con tutte le sue risorse. Per le nostre antenate la Madre era anche sacra. La sacralità era in tutte le cose. Oggi il sacro è stato confinato in una irraggiungibile dimensione trascendente, lontano dalla vita e dall’esperienza umana. Per logica conseguenza del pensiero duale, le cose di questo mondo sono quindi diventate profane. Se non persino impure. Materia contrapposta a spirito. La terra non più sacra può quindi essere dominata e poi sfruttata. Il paradigma materno si è così totalmente rovesciato.
Le radici di un altro modello possibile si scorgono in una sacralità che non contrappone materia e spirito e lascia libertà all’umanità di agire nella materia per quanto è necessario al mantenimento dei propri bisogni, richiamandola però a conservare un principio di equilibrio. L’archetipo di madre nutrito di questa sacralità nutrirà della stessa dimensione anche l’immaginario della cultura di riferimento. E l’immaginario nutrito di questi nuovi sapori, nutrirà a sua volta l’agire di ogni singolo, figlio tra i figli che, da conquistatore e dominatore, potrebbe tramutarsi in guardiano. Il rapporto uomo-Terra, è così ribaltato: non è la Terra ad appartenere all’uomo, ma l’uomo (e la donna!) ad appartenere alla Terra.
Quando la materia è sacra, lo diventa anche il modo di produrre il proprio cibo. Lo diventa il cibo stesso. Quando la materia ha la sua importanza, la sua propria dignità, il concetto di valore di questa torna ad arricchirsi di nuovi significati differenti da quelli puramente economici. Una Terra/terra intesa come Madre pone all’umanità figlia un qualcosa che l’umanità stessa pare aver smarrito con il mito (immaginario) della crescita vettoriale e continua: il concetto di limite (…).

Rinarrare la Madre significa anche rinarrare una egual unità di misura nei confronti delle figlie e dei figli. La madre non discrimina. Un’eguaglianza dinanzi ai diritti inviolabili dell’umanità e che riconosce a tutte e tutti l’eguale accesso alle risorse vitali. Allo stesso tempo, ogni figlia e ogni figlio rimangono differenti per aspirazioni, interessi, doni, capacità … ciascuno in grado di apportare peculiari risorse nel processo di creazione. Lo stesso ruolo di figlio/a si può arricchire. Non è riducibile alla stregua di un “parassita”, metafora infelicemente utilizzata anche da qualche medico per spiegare il processo di nutrimento del feto durante la gestazione. Tra madre e figlio/figlia lo scambio è continuo. La madre nutre e cura i figli con una abbondante varietà di cibi, i figli nutrono e curano la madre nel loro agire creativo. Non c’è, in questa visione, uno sbilanciamento eccessivo verso il “prendere” a scapito del “dare”. E ancora una volta, siamo alla ricerca di equilibrio.

Estratto de La denutrizione dell’immaginario di Laura Ghianda – www.comune-info.net 6 luglio 2015 (bp)