Abbiamo letto…

BONANSEA GRAZIELLA, Cécile di sete e di acque, Neos Ed. Rivoli (To) 2016.

Graziella ha scritto un romanzo sublime: la storia di “una donna che non si arrende”, che nel 1665 va da Le Havre a Roma con un figlio di pochi mesi, una bambinaia/cameriera e un garzone, per mettersi alla prova nella difficile arte di dare seguito al mestiere del marito, commerciante di tessuti preziosi, da lei condiviso fino alla morte violenta di lui.
Un viaggio che è pellegrinaggio, meditazione quotidiana su avvenimenti e incontri e, nello stesso tempo, iniziazione alla vita sociale per una donna che non era mai uscita di casa.

Graziella è femminista e storica: conosce la materia e i contesti della quotidianità di quei tempi. In più ha affinato, di romanzo in romanzo, il dono di una parola efficace, molto evocativa di atmosfere, emozioni, sentimenti.

Una donna “che non si arrende”: Cécile mi ha lasciato con lo stupore un po’ smarrito di non capire quale sarà stata infine la sua scelta. Il progetto era di arrivare a Roma e poi tornare a casa, ma… davanti alla statua di Teresa d’Avila, che come lei “era sola davanti agli uomini”, Cécile prende coscienza che “il suo viaggio è appena cominciato, altro che girare i tacchi e puntare verso la Francia. Tutto alle spalle”.

Il climax del romanzo, tuttavia, per me si trova nelle pagine 240-241, dove Cécile matura la decisione di “fare da tramite”, incontrando commercianti, fiduciari, sensali: “Tratterà tessuti non facili da reperire. E se riuscirà a far incontrare il sole e le terre dell’Asia vicina e lontana con le sfumature opache del Nord, se sarà in grado di avvicinare sui banconi ricami e filati che nulla sembrano avere in comune, se avrà la forza di riunire mondi tanto dissimili fra loro, allora il lungo viaggio che l’ha impegnata per mesi avrà raggiunto almeno in parte il suo scopo.
Adesso lo capisce. Capisce che è necessario trovare un punto di giunzione nell’universo. Da qualche parte, in qualche maniera. Per non separare, non mettere barriere.
Anche la pittura di Elisabetta, l’amica che non potrà dimenticare, azzardava colori che quasi stridevano fra loro. Elisabetta diceva che in quel modo si salvaguardava la varietà che è nelle cose, dentro le cose. Era questa la strada per la concordia?
‘Chi governa e condanna dovrebbe guardare ogni giorno i quadri – ragionava Elisabetta – Principi e re potrebbero ben capire come i contrasti si sciolgono sulle tele. Non è necessario arrivare alla battaglia. Ci si può fermare ben prima’”.

Ho riletto più volte questa pagina, per coglierne il senso. Che non è, probabilmente, quello pensato da Graziella, ma è il senso per me: nel pensiero, nelle teologie, il “punto di giunzione” sono le Teologie della Liberazione, prime fra le quali sono le teologie femministe, della libertà delle donne; e, nelle politiche, così competitive e in conflitto, il punto di giunzione è la libertà di ogni essere umano, a cui devono essere finalizzate le leggi.

Proprio nei giorni in cui terminavo la storia di Cécile, stavamo cominciando a leggere, in comunità, la Lettera di Giacomo, misconosciuta e quasi invisibile, incastrata com’è tra quelle più famose di Paolo e l’Apocalisse. Ebbene, proprio negli ultimi versetti del 1° capitolo Giacomo nomina la “legge della libertà”. Lungi dall’essere una contraddizione in termini, mi ha aiutato a capire, una volta di più, che la mia libertà è legata al rispetto della legge dell’armonia e dell’amore reciproco, che è intrinseca alle “cose”, me compreso – e ogni uomo e ogni donna. E’ indispensabile rispettarla per essere libero e felice.
Questa è davvero, io credo, il “punto di giunzione nell’universo”. Capirlo ci aiuterebbe a fermarci prima di ogni battaglia, di ogni lite, di ogni guerra.
Beppe Pavan